ultimo aggiornamento: 3 Febbraio 2021 alle 18:46
storia e definizione
Il verbo resettare ha cominciato ad essere utilizzato nella lingua italiana dagli anni ottanta del secolo scorso: si tratta dell’italianizzazione del verbo inglese to reset (→ azzerare, cancellare, ripartire da zero, fissare un nuovo punto). Il reset rappresenta l’atto di riportare allo stato iniziale, annullare le modifiche sopravvenute, interrompere i programmi attivi in quel momento per ricondurre il sistema alle condizioni di funzionamento precedenti; il verbo è stato usato inizialmente solo in informatica, col significato di far ripartire un sistema di elaborazione dallo stato iniziale, azzerare le operazioni svolte da un computer e riavviare il sistema.
L’atto di resettare, dall’asettico linguaggio tecnico, è entrato nella nostra lingua assumendo significati via via più ampi, arrivando a esprimere il concetto di “ripartire dal momento iniziale, da quando tutto è cominciato” o di “ricominciare daccapo”.
In pratica, quando resettiamo, cerchiamo di rimettere a posto le cose.
È da questo concetto che ha origine la parola, se ne prendiamo in considerazione l’etimologia; non è altro che il frutto dell’unione tra un “re-“ iterativo, che indica la ripetizione di un’azione, ed il verbo “to set”, ossia collocare o fissare: nel resettare riposizioniamo nuovamente qualcosa, sta a noi decidere con quali esiti.
reset: ripristinare l’omeostasi
Se pensiamo all’organismo, con i suoi set-point omeostatici ed i suoi equilibri somato-emozionali, ogni volta che uno stimolo provoca uno stress, viene alterata la stabilità del sistema: la perturbazione che ne deriva, agendo da trigger, attiva “programmi” finalizzati ad incrementare la risposta energetica ed ad ampliare le possibilità di “sopravvivere” al cambiamento (arousal); questi “servomeccanismi”, pur essendo volti a contrastare gli effetti potenzialmente dannosi esercitati dagli stressor, possono compromettere la stabilità e l’integrità del corpo, depauperandone le “riserve” somato-emozionali.
L’idea di reset, in questo contesto, descrive e sottintende il concetto di “rimettere a posto”, far ripartire il “sistema operativo”, soprattutto se è entrato in blocco: ripristinare lo status quo, risistemare l’organismo in modo che i “compensi” fisiologici che determinavano l’equilibrio precedente al dis-stress possano essere recuperati; in alcuni casi l’effetto del reset può essere quello di implementare le capacità di interazione dell’organismo, così che sia possibile raggiungere un nuova stabilità attraverso il processo allostatico ed, eventualmente conseguire uno stato di eustress: in questo caso la trasformazione deve essere vista come l’espressione della capacità di coping, divenendo lo strumento necessario per superare gli squilibri e raggiungere un nuovo livello di ben-essere.
Il termine reset viene utilizzato in questo senso sia nel Cranio-Sacral Repatterning®, sia nella Kinesiologia Transazionale® e nella Kinesiopatia®: queste discipline olistiche offrono differenti tecniche finalizzate a restaurare una condizione ottimale non solo funzionale ma anche somato-emozionale. Se partiamo dal presupposto che una serie di eventi, azioni o circostanze abbiano alterato il nostro “setting”, attraverso procedure specifiche è possibile reintegrare la stabilità pregressa o adeguare l’organismo a nuovi contesti: il nuovo “set di istruzioni” è il risultato non solo dell’azione di ripristino dell’equilibro somato-posturale (habitus) o del miglioramento della biochimica corporea, ma anche il frutto di un processo di elaborazione dei vissuti e delle emozioni generate dalle perturbazioni o dei blocchi a cui siamo stati sottoposti; quando questo si verifica, dobbiamo considerare i risultati raggiunti come l’espressione di una rinnovata capacità allostatica che permette di trasformare le difficoltà in sfide, di convertire un “dis-stress” in un ”eustress“, ritenendo che gli eventuali cambiamenti raggiunti siano step evolutivi, ovvero la manifestazione di un “miglioramento”, qualitativo o quantitativo, della vitalità.
Non sempre esiste questa possibilità e non è detto che chiunque ne sia capace ininterrottamente o senza eccezioni: la nostra propensione a reagire agli stimoli non solo è una funzione della nostra stamina, della resilienza e della capienza che abbiamo maturato, ma anche della nostra storia personale, dei vissuti, delle influenze familiari e delle credenze personali e tribali a cui siamo assoggettati; non dobbiamo poi sottovalutare, ovviamente, l’entità degli stress a cui siamo sottoposti: quando la disparità fra le pressioni a cui siamo sottoposti e le nostre capacità di reazione sono oggettivamente sproporzionate, la necessità di ricorrere ad un aiuto diventa non più un’esigenza ma assume un ruolo fondamentale per la gestione del disagio e del mal-essere.
Non tutti sono in grado, come direbbe il filosofo scozzese Thomas Carlyle, di affermare «la pietra d’ingombro sulla strada del debole è la pietra miliare, il punto di partenza nel cammino del forte»; tantomeno possiamo sperare che sia semplice affrontare le difficoltà per raggiungere i propri obiettivi, ispirati dal «per aspera sic itur ad astra» latino: il surmenage a cui siamo sottoposti può essere l’elemento che crea una profonda dissociazione fra la percezione della realtà e la sua fattualità.
Spesso le dis-funzionalità, il dis-ease, il mal-essere sono l’espressione dell’incongruenza fra lo stato psicofisico in cui viviamo e le risposte funzionali che il sistema nervoso mette in atto come riscontro alle emozioni profonde che sottostanno ai nostri comportamenti: ciò che pensiamo non sempre coincide con ciò che sentiamo, così come la percezione di noi stessi e delle nostre capacità viene “condizionata” dai nostri vissuti emozionali, creando una dicotomia fra ciò che siamo e ciò che riteniamo di essere.
Da queste difformità e dissonanze, spesso, nasce la necessità di effettuare un “reset”: riattivare la corretta gestione delle risorse, rigenerare l’omeostasi fisiologica, per affrontare gli eventi nella corretta prospettiva, aprendo la mente ad una valutazione multidimensionale che ci consenta di interagire ad ogni livello con le sfide che si presentano.
dis-stress – reset – eustress
In genere, l’esigenza di “rimettere a posto”, di “azzerare tutto” e ”ripartire da zero” è legata al perdurare degli influssi negativi che la “fight-or-escape response”, cioè la reazione scatenata da stressor ad azione biocidica, è in grado di instaurare nell’organismo; quando uno stimolo perturba il nostro stato di “presunto” equilibrio, cioè quando percepiamo la pressione e abbiamo la sensazione, anche non consapevole, di essere in pericolo, il nostro sistema neuro-endocrino attiva una serie di risposte generalizzate di adattamento per prepararsi a reagire prontamente alle sollecitazioni: in pratica entra in uno “stato di allerta”.
Agenti causali e fattori scatenanti sono in grado di fungere da trigger, inducendo l’organismo a “replicare” per incrementare la propria performance, per rispondere all’aumento delle richieste derivanti dalle necessità di interazione con le variazioni dell’ecosistema: attraverso le proprie capacità cibernetiche, il sistema nervoso è in grado di attuare comportamenti teleologici, monitorando proattivamente o retroattivamente, l’attività corporea.
Una volta cessata l’azione dello stress o del fattore scatenante, cioè una volta che la sensazione di urgenza viene meno, dovrebbe essere possibile ritornare allo stato omeostatico di riposo; la percezione del cessato pericolo dovrebbe disattivare lo stato di arousal. In alcune situazioni, però, soprattutto alla presenza di dinamiche emotive anziché ristabilire lo stato pre-allerta, le persone continuano a risentire delle pressioni subite in precedenza: il passato, anziché venir elaborato e superato, creando esperienze (positive o negativa) e competenze, continua ad esercitare effetti anche sul “qui” e “ora. L’esistenza di spine irritative e di cofattori eziologici, che depauperano l’energia vitale dell’organismo rendendolo maggiormente vulnerabile a nuove urgenze o sollecitazioni, alimentano il perdurare di irritabilità, come braci che covano sotto la cenere; questa condizione di iper-reattività mantiene lo stato di allerta, anche qualora l’elemento causale abbia terminato la sua azione. La mancata soluzione dello stato di “eccitazione reattiva” porta l’organismo a convertire il proprio livello di difesa da una condizione di “reattività immediata” ad uno “stato di vigilanza” continua, con l’attivazione di sistemi metabolici più complessi, come l’asse ipotalamo-ipofisi-surrenali.
Purtroppo, vuoi per il perdurare di frangenti ansiogeni o stressanti non riconosciuti consapevolmente, vuoi per la presenza di circostanze capaci di attivare un effetto trigger o di cofattori eziologici misconosciuti, vuoi per l’attivazione di facilitazioni segmentali o l’insorgenza di disestesie, si viene a creare una dissociazione e una decontestualizzazione fra l’entità della risposta organica e le circostanze o gli ambiti con cui ci si relaziona: in parole semplici, il corpo continua a reagire in maniera spropositata e non sempre congruente agli stressor che subisce, anche per la presenza di componenti emotive non riconosciute.
In pratica si innescano alterazioni sia nei modelli di interpretazione della realtà, sia negli schemi reattivi che vengono messi in atto nei confronti di cosa accade o di quello che realmente si prova.
il reset come necessità
Per questa ragione sono così importanti le tecniche di reset, avendo il compito e la capacità di “de-attivare” lo stato di ipereccitazione neuro-vegetativa che sottostà ai fenomeni disfunzionali.
Facilitare il recupero della corretta percezione del sé e restaurare l’equilibrio somato-emozionale preesistente allo stress è una priorità per l’operatore del ben-essere: senza disinnescare queste “routine dello stress”, senza bloccare i metaprogrammi che sottostanno al nostro agire, senza neutralizzare gli effetti che i sistemi di credenza personali o tribali hanno sui nostri atteggiamenti, diventa estremamente difficile interrompere i loop neuro-ormonali e comportamentali che mettiamo in atto in risposta allo stress. Se, da un lato, lo stato di arousal migliora la possibilità di sopravvivenza nei confronti di traumi o noxæ potenzialmente capaci di favorire l’insorgenza del dis-ease o del mal-essere, dall’altro il perdurare di una sindrome generalizzata di adattamento può portare al burn-out dell’organismo: una volta esaurita la capienza somato-emozionale e la resilienza, il “destino” finale è lo stesso che si raggiungerebbe continuando a subire «i dardi e le frecce di un avverso destino» … lo “stato morboso”.
Le procedure di “normalizzazione” hanno il compito di interrompere i “programmi per la sopravvivenza”, che rimangono attivi, pur non essendo più idonei al contesto, e di riportare il “sistema corpo” alle condizioni di funzionamento precedenti allo squilibrio; lo scopo è il ripristino della corretta cibernetica corporea, per permettere la piena disponibilità della forza vitale e attivare quella “vis medicatrix naturæ”, presente in ognuno, indispensabile per promuovere i meccanismi di autoriparazione e rigenerazione.
Le tecniche di reset sono in grado di sovvertire il perpetuarsi dei circoli viziosi, disinnescando la reiterazione di programmi “istintivi” che, grazie all’effetto domino, portano al fallimento dei sistemi metabolici ed all’incapacità fisica di fronteggiare i problemi; il prodotto di questo dissesto è aggravato dalla contestuale riduzione delle capacità di coping che, sincronicamente, genera una sorta di profezia che si autoavvera, in modo circolare: ogni peggioramento genera un nuovo peggioramento che coinvolge le differenti sfere dell’essere.
Per capire meglio questo meccanismo, che assume il carattere paradossale della apparente predestinazione, occorre ricordare che le risposte difensive allo stress, all’ansia, alla paura o alle situazioni di disagio emotivo sono controllate prevalentemente dalla dominanza del Sistema Limbico, che prevarica la componente “corticale”: quest’ultima, infatti, se opportunamente sostenuta, sarebbe in grado di ponderare le reazioni e contestualizzare gli eventi, allentando la presa che lo “stress emotivo” genera nell’organismo; viceversa la tempesta ormonale scatenata dal sistema limbico, con la conseguente alterazione dei livelli di dopamina e serotonina, non solo incide sui comportamenti e sulle dinamiche di reazione allo stress ma, soprattutto quando gli stimoli sono massimamente sopraliminali, apre la porta alla regressione a manifestazioni “primitive”, dominate dall’influenza del cervello rettiliano, il cosiddetto “R-Complex”.
il cervello uno-trino ed il neuro-vascular coupling
Il neurologo e neuro-scienziato Paul Donald MacLean, per spiegare le modalità con cui il sistema nervoso interagisce con l’ecosistema che ci circonda ed il nostro ambiente interno, ha elaborato la tesi che il sistema cerebrospinale sia una struttura trinitaria: pur apparendo come una unica entità morfo-funzionale, in realtà deve essere considerato trino; per questo, nel suo volume «Evoluzione del cervello e comportamento umano», ha ipotizzato che la presenza di tre formazioni sovrapposte, chiamando l’insieme «Triune Brain», con compiti differenziati, sia il frutto del processo filogenetico. In pratica l’idea è che il cervello si sia sviluppato attraverso un processo di stratificazioni successive, come quando si crea un covone di paglia, in cui gli strati che lo formano si poggiano su quelli precedenti: le strutture originarie, più arcaiche, semplicemente vengono “ricoperte” da altre più moderne che sovrappongono integrazioni, aggiunte funzionali ed estensioni, in grado di effettuare elaborazioni più articolate, senza che avvengano radicali modifiche strutturali, come avviene con l’architettura di sussunzione dell’intelligenza artificiale; il sistema nervoso primigenio, meno sviluppato e complesso, viene arricchito da sovrastrutture che non sono in alcun senso separate ma che, pur essendo entità autonome che svolgono attività in qualche modo indipendenti, lavorano in modalità interdipendente con le formazioni nervose più arcaiche, perfezionando le funzioni neurologiche a livelli di maggiore complessità ed integrazione.
La matrice più arcaica (definita rettiliana) è il nucleo iniziale: «si pensa che il cervello rettiliano rappresenti il centro fondamentale del sistema nervoso, essendo costituito dalla parte superiore del midollo spinale, da parti del mesencefalo, dal diencefalo e dai gangli della base» (Paul Donald MacLean) e che sia responsabile delle attività di base dell’organismo a livello organizzativo innato ed immodificabile, come le funzioni respiratorie, circolatorie, alimentari, locomotorie e posturali. Su questo nucleo originario si sovrappone «il cervello paleo-mammaliano (“sistema limbico” o “cervello viscerale”), che rappresenta un progresso nell’evoluzione del sistema nervoso, perché procura agli animali che ne dispongono, mezzi migliori per affrontare l’ambiente.» (Paul Donald MacLean): il suo sviluppo incrementa la capacità di creare interazioni fra i messaggi provenienti dal mondo esterno con quelli endogeni; rappresenta lo sviluppo di attività primarie quali il nutrimento, il sesso, le emozioni ed i sentimenti, i comportamenti legati alla sopravvivenza individuale (fight-flight-fright) ed al soddisfacimento dei bisogni biologici, caratterizzati da spiccati correlati emozionali di carattere fisiologico (percezione di squilibri omeostatici) e psichici (componente affettiva degli squilibri fisiologici).
Un ulteriore step evolutivo è rappresentato dallo sviluppo del Neo-Pallium, dal latino (nuovo) pallium (→ strato, manto), perché si pone come un mantello sopra le strutture nervose sottostanti, cioè le strutture spino-midollari rettiliane e paleo-encefaliche, che vengono “incluse”, come all’interno di una conchiglia: la neo-cortex si struttura fortemente in base alle esperienze individuali e si caratterizza per le capacità cognitive che riesce ad esprimere, per l’apertura all’apprendimento, l’individualità e la plasticità delle risposte agli stimoli.
L’idea di Paul D. MacLean è che il cervello sia organizzato in strati funzionali con compiti di controllo e, soprattutto, di inibizione sulle strutture più arcaiche: ogni nuovo strato di neuroni, più moderno da un punto di vista filogenetico, agisce inibendo quello sottostante, più antico evolutivamente parlando, coordinandone e controllandone l’attività. «Non si sottolineerà mai abbastanza che questi tre tipi fondamentali di cervello presentano fra loro grosse differenze strutturali e chimiche; eppure devono fondersi e funzionare tutti e tre insieme come un cervello uno e trino: la cosa straordinaria è che la natura sia stata capace di collegarli fra di loro e di stabilire una qualche sorta di comunicazione dall’uno all’altro.» (Paul Donald MacLean)
Se da un lato il processo evolutivo porta l’essere umano a sviluppare un cervello “moderno” (Cervello Neo-Mammaliano) che sottostà alle nostre peculiarità, cioè la capacità di capire, comprendere, imparare e apprendere, ricordare, comunicare, creare, servendo ad elaborare idee nuove, soluzioni intelligenti e creatività, dall’altro le situazioni di stress possono disattivare queste prerogative di essere progrediti ed emancipati.
L’attività del cervello Neo-Mammaliano è costantemente assistita ed influenzata dal Sistema Limbico e dal R-Complex ed anche se i tre tipi di cervello non sono in alcun senso separati e non agiscono come entità autonome, sono capaci di funzionare in qualche modo indipendentemente: l’interazione fra la componente vascolare, quella ormonale e quella nervosa è un elemento importante per comprendere come, a livello cerebrale, si possano modificare le relazioni fra i tre tipi di cervello.
In situazioni in cui percepiamo una “minaccia alla nostra sopravvivenza”, sia che ciò avvenga coscientemente o in assenza di consapevolezza, l’attivazione della componente “animale” che è in noi, porta ad attivare il blood-shift (spostamento del sangue) da distretti non immediatamente coinvolti nella gestione dello stress, cioè dalle aree neo-mammaliane (Neo-Encefalo), a quelle paleo-mammaliane (Sistema Limbico) o, addirittura, archeo-encefaliche (Cervello paleo-Rettiliano), innescando reazioni “primitive” cioè automatiche, “intuitive” e rapide; “replichiamo” con modalità che spesso classifichiamo come “istintive”, coinvolte dall’attivazione delle risposte di rabbia-paura-violenza, con la conseguente “anestetizzazione” della parte che favorisce emozioni coinvolgenti quali amore-piacere: in questo modo il sistema nervoso si mantiene vigile ed in allarme, pronto a reagire agli eventuali pericoli mentre il predominio di emozioni gratificanti o rilassanti, all’opposto, indurrebbe l’organismo ad uscire dallo stato di difesa.
All’aumentare delle pressioni, sociali o ambientali cui siamo sottoposti, il sistema nervoso disattiva le aree non immediatamente necessarie, per favorire la velocità di reazione; i capillari sanguiferi, presenti nel sistema nervoso, non hanno semplicemente il compito di supportare metabolicamente i fabbisogni neuronali ma per effetto del cosiddetto “neurovascular coupling” (accoppiamento neuro-vascolare) sono in grado di reagire agli stimoli e modulare la funzionalità del sistema nervoso stesso: la diffusione del sangue all’interno dei distretti cerebrali influenza, in particolare, la “messa in funzione” delle regioni encefaliche o la riduzione della loro attività. Questo fenomeno assume un ruolo rilevante nei meccanismi di interazione con lo stress e nel coinvolgimento di differenti aree nelle risposte adattative (anche alla luce della diversa attivazione delle strutture arcaiche del cervello, rispetto a quelle più moderne) e nella gestione degli eventi che coinvolgono situazioni di pericolo o di dolore. Essendo lo stress codificato sotto i termini di scelta istintuale “lotta-fuga-mimetismo-sopravvivenza”, le aree coinvolte nel controllo circolatorio sono prioritariamente l’Ipotalamo ed i centri sottocorticali che tendono a escludere il predominio della corteccia cerebrale, dando maggior spazio a quella serie di comportamenti, che spesso definiamo istintivi o intuitivi, che, in certe condizioni, possono divenire il fattore che ci mantiene imprigionati nelle dinamiche difensive di allarme o vigilanza.
visione olistica e reset
Nonostante i contributi da parte del Sistema Limbico e della Neo-Cortex, il cervello rettiliano è quello che, alla fine, delibera e attua le soluzioni, decreta l’azione, basando le proprie scelte su coppie di opzioni antitetiche; il contrasto (bianco/nero, tutto/nulla, scelta/non scelta), consente procedimenti elementari e sicuri per il processo decisionale, in quanto le opzioni contrapposte permettono di optare per una alternativa in modo sicuro, velocemente, abbassando o azzerando il rischio, senza paragoni o confronti che possono ingenerare confusione e portare l’individuo ad uno stato di attesa che lo induce a procrastinare la decisione o, al limite, a non prenderla, paralizzandolo in uno stato di stallo.
La sicurezza passa attraverso la ricerca di contesti noti, che non costringano il sistema nervoso a confronti con esperienze inaspettate o informazioni eccessive: ciò che è noto, “domestico”, immediatamente disponibile e fruibile, identificabile e soprattutto tangibile e concreto, è privo di potenziali pericoli e non necessita elaborazioni. Interpretazioni complesse, che possono divenire di difficile comprensione, che richiedano la necessità di articolare il pensiero in “inutili” sfumature, che creino dubbi o esigano sforzi; manifestazioni confusionarie, il disordine, la mancanza di logica e direttive gerarchiche sono un rischio a cui si devono preferire idee tangibili, semplici e chiare. Ciò che diviene rilevante è la situazione di partenza e l’esito finale, non il modo in cui viene raggiunto: è il risultato che focalizza l’attenzione e rimane in memoria, in particolare se il tutto può essere sintetizzato in un’immagine esplicativa che possa evocare facilmente le nostre reazioni.
Per questo, in situazioni che richiedono una pronta risposta finalizzata alla sopravvivenze o all’evitare pericoli o dolore, la corteccia cerebrale, pur potendo intervenire sull’Ipotalamo per modularne l’espressione, “delega” il controllo a quest’ultimo; la conseguenza che ne deriva è che l’individuo è indotto ad agire secondo modelli acquisiti e consolidati, cioè a schemi che si sono rivelati vincenti per la sopravvivenza nelle precedenti esperienze. Il Sistema Nervoso, in pratica, in questi contesti, dedica la maggior parte del tempo ad elaborare strategie difensive in risposta a ipotetici “aggressori”, reali o presunti, basandosi sulle esperienze che nel passato gli hanno permesso di “salvarsi” dagli eventi negativi che la vita ha “gettato sul suo cammino”; come conseguenza, rimanendo imprigionato in meccanismi di sopraffazione da parte dello stress, l’individuo agisce sotto il dominio “paleo-mammaliano” o, addirittura, “rettiliano” ritrovandosi condizionato a vivere in uno stato continuo di “sopravvivenza” con reazioni del tipo lotta-fuga-inazione.
Il risultato finale è che la capacità di contestualizzare la realtà viene meno, per effetto del blood-shift che sposta il sangue (e l’attività neurologica) dalla corteccia ai nuclei profondi del sistema nervoso; si diviene incapaci di comprendere ciò che ci sta accadendo e di elaborare nuove strategie di crescita, di sviluppare ed applicare l’abilità di coping che ci permetterebbe di uscire dal loop del dis-stress: la “devascolarizzazione” cerebrale, associata ai cambiamenti nella produzione degli ormoni (asse ipotalamo-ipofisi-surreni, con ipercortisolemia) e dei neurotrasmettitori (squilibrio delle catecolamine, ed in particolare della dopamina e della serotonina) incide anche sulla funzionalità del sistema cranio-sacrale, creando distonie del meccanismo respiratorio primario.
Attraverso specifiche tecniche di reset, in grado di “de-attivare” lo stato di ipereccitazione neuro-vegetativa che sottostà ai fenomeni disfunzionali, è possibile interrompere i “metaprogrammi per la sopravvivenza”; in difetto di questa disattivazione, gli atteggiamenti finalizzati all’autoconservazione rimangono attivi, pur non essendo più idonei al contesto: riportare il sistema alle condizioni di funzionamento ottimale, prevenendo possibili burn-out o forme di esaurimento è un primo passo fondamentale, nella ricerca del ben-essere, per poter “riprendere il via”.
La maggioranza delle procedure utilizzate dalle discipline olistiche come la Kinesiologia Transazionale®, la Kinesiopatia® o il Cranio-Sacral Repatterning®, grazie alla visione d’insieme, potrebbero essere considerate tecniche di reset e di “normalizzazione”: la valutazione multidimensionale di sui ci si serve abitualmente per comprendere le radici dei sintomi, aiuta a distaccare la classica visione causa/effetto, che porta a identificare il sintomo con la “malattia” o l’area in cui si manifestano gli squilibri come zona problematica; nel momento in cui il kinesiologo effettua una “riequilibrazione muscolare” o l’operatore cranio-sacrale esegue un bilanciamento di un segmento osseo o l’unwinding della fascia non sta correggendo un muscolo o “aggiustando” un osso, ma sta lavorando per neutralizzare gli agenti causali oppure per minimizzare gli effetti negativi delle spine irritative e dei cofattori eziologici, per direzionare le risorse verso un nuovo equilibrio e “resettare” il sistema, creando nuovi metaprogrammi orientati al ben-essere.
Ovviamente esistono tecniche più finalizzate ad intervenire sul lato fisico o biochimico-nutrizionale del “triangolo della salute” ed altre mirate maggiormente ad agire sul disagio somato-emozionale: le tecniche di normalizzazione del ritmo cranio-sacrale utilizzate nel Cranio-Sacral Repatterning®, come il “reset temporo-vascolare”, o la stimolazione dei riflessi di Bennett e le tecniche di ”allentamento dello stress” (emotivo o posturale) di cui ci si avvale nella Kinesiologia Transazionale® sono in grado di agire sull’equilibrio neuro-vascolare e perciò interagire maggiormente su questo ultimo aspetto del dis-stress; sono strumenti fondamentali per il professionista per “normalizzare” le risposte dell’organismo, così da sovvertire il perpetuarsi dei loop, disinnescando la reiterazione di programmi “istintivi”, ed offrire una “ri-partenza” all’organismo.