il manovratore non è pazzo – ovvero – non è possibile pensare che il coordinamento di ciò che accade nel corpo miri alla propria autodistruzione.
Drapetomania: tipica mania degli schiavi che, insensatamente, erano colti dal desiderio irrefrenabile di fuggire. Un comportamento assolutamente irrazionale, associato a manifestazioni per cui lo schiavo, “quando viene costretto con la forza dall’uomo bianco a recarsi al lavoro, svolge i propri compiti in modo svogliato e distratto, pestando coi piedi o strappando con la falce le piante che dovrebbe coltivare, rompendo gli strumenti di lavoro e rovinando tutto ciò che gli riesce di rovinare” (Petr Srabanek & James McCormick).
Se ascoltiamo con attenzione quanto gli “esperti” di salute ci dicono, anche noi a volte siamo colti da atteggiamenti irrazionali come la drapetomania (drapetes: schiavo in fuga).
Vogliamo capire che cosa ci viene propinato come farmaco (farmacon, dal greco, veleno); abbiamo l’assurda aspettativa di chiedere informazioni sul trattamento medico o chirurgico a cui “dobbiamo” essere sottoposti; addirittura pretendiamo di esprimere il nostro parere o, peggio ancora, il nostro rifiuto riguardo a cure e prescrizioni, mantenendo le nostre malsane abitudini comportamentali o alimentari…
Effettivamente, il nostro corpo, ammalandosi, sentendosi male, dimostra, almeno dal punto di vista di medici e psicologi, che non siamo in grado di prenderci cura di noi stessi: secondo questi esperti della salute, il nostro “manovratore” interno è per lo meno poco scaltro, se non addirittura pazzo!
La nostra natura illogica ci porta a cercare di evitare purghe, punizioni, medicine, sani consigli che hanno il compito di “rimetterci sulla giusta via” e quindi è ovvio che non ci resta che ammalarci.
Solamente quando “il buon senso” dell’educazione (che ha lo scopo di condizionare la nostra volontà individuale), della psicoterapia (che spesso vuole influenzare il nostro mondo inconscio) e della medicina (che si arroga il diritto di gestire il nostro organismo) possono indurre un’azione correttrice dall’esterno o sono in grado di controllare i nostri comportamenti, allora possiamo sperare di essere illuminati e raggiungere la salute…
La nostra natura è illogica o cerca, comunque, di ispirarci verso il meglio?
Il corpo umano è un ecosistema e come tale è regolato da forme di autogestione portate ad equilibrare i nostri bisogni fisiologici e psicologici, con le risorse disponibili.
È un sistema caratterizzato da meccanismi di autoregolamentazione che mirano a mantenere tre priorità fondamentali per il nostro organismo: equilibrio fra i sistemi, economia energetica, benessere.
L’errore di fondo è pensare che questo sistema di regolazione/regolamentazione sia racchiudibile nel cervello o nella psiche: tutto il corpo è coinvolto nel processo diffuso di elaborare ed integrare le informazioni che derivano dalle esperienze, dalle sensazioni, dalle percezioni. Il corpo utilizza ogni sua parte per garantirsi un sistema integrato e ridondante di controllo al fine di assicurarsi la sopravvivenza ed il benessere: le esperienze sensoriali sono la base delle nostre emozioni che determinano gli adattamenti e l’integrazione delle esperienze nel nostro soma.
L’intero corpo mira a raggiungere un equilibrio gestibile in base alle risorse disponibili nel momento, con lo scopo di mantenere il maggior confort possibile.
Come la moderna biologia conferma, giorno dopo giorno, la coordinazione diffusa e non gerarchica da parte del corpo, ci permette di comprendere come qualunque manifestazione compaia in noi, sia l’espressione di un bisogno, di un nuovo equilibrio gestibile, di un messaggio che la nostra “pancia” ci manda e non di un errore di funzionamento o di una “stupidità” del sistema corporeo che deve essere corretto da qualche “saggio” esterno.
La malattia come monumento alla nostra stupidità…
Ognuno di noi, nella propria vita ha commesso degli errori: è inevitabile ed intrinseco nella nostra umanità.
Ma che cosa accade quando non accettiamo l’errore e dedichiamo le nostre energie a voler dimostrare a noi stessi che ciò che è avvenuto non è uno sbaglio?
Se, in un certo momento della nostra vita siamo stati costretti a compiere una scelta che non ci ha soddisfatti, spesso, sottovalutando il fatto che probabilmente era “l’unica scelta ragionevole” in quel momento o che le nostre motivazioni più profonde ed interiori ci portavano verso quella particolare preferenza, scatta in alcuni di noi un meccanismo che ci induce a voler dimostrare a noi stessi che non potevamo fare diversamente.
E, di conseguenza, entriamo nell’inconscio bisogno di metterci alla prova, ripetendo all’infinito gli stessi errori con la conseguente generazione di reazioni di stress.
Fra le tante definizioni possibili dello stress, ai fini di questo articolo, due sono rilevanti: la prima afferma che “lo stress è una risposta a-specifica che il corpo dà a qualunque stimolo che cerchi di modificarne l’equilibrio”.
La seconda afferma che “lo stress è la disparità soggettiva fra le risorse che riteniamo di possedere e le richieste che crediamo ci vengano fatte”. Perché queste due affermazioni sono così importanti? Perché ci fanno capire che mantenere una qualunque forma di equilibrio è energeticamente dispendioso al punto di mettere in difficoltà il nostro corpo.
Come possiamo sostenere uno sforzo prolungato? Solamente attraverso un depauperamento delle nostre risorse: se non ascoltiamo il nostro corpo, nel suo insieme, e non solo ciò che la nostra volontà od il nostro desiderio ci impongono, rischiamo di trascurare le vere possibilità che abbiamo e di adottare la miglior strategia di sopravvivenza.
Quando non accettiamo ciò che il corpo ci comunica, disconosciamo la saggezza del corpo. Ovvero, non diamo ascolto al messaggio che il corpo ci sta comunicando.
Il malessere e la malattia, spesso, rispondono ad un preciso disegno di adattamento allo stress, ad un meccanismo di autoregolazione che mira a compensare l’inconsapevole scelta a rimanere in uno stato di stress cronico.
Il nostro corpo, divenendo una struttura pensante al di fuori della nostra volontà, “sceglie” di evitare fenomeni di “usura” potenzialmente più gravi della malattia stessa, cercando di ridurre il consumo energetico. Sceglie di perseguire fini e scopi più profondi di quelli che riteniamo, consapevolmente, essere i nostri obiettivi, manifestandosi attraverso i sintomi.
Se prendiamo in considerazione alcuni dei nostri malesseri potremmo forse notare aspetti interessanti del messaggio che vogliono annunciarci e che, ovviamente, non vogliamo ascoltare.
Il messaggio della malattia
Ogni sintomo è, in fondo, un messaggio: rappresenta il paradosso che sta alla base dei segni che il nostro corpo ci invia.
Come quando “stringiamo i denti” per andare avanti, anziché ascoltare il nostro bisogno di fermarci. Per quanto paradossale possa apparire, spesso parliamo di “stringere i denti per tirare avanti”, eppure la compressione esercitata attraverso le mandibole sul cranio genera, spesso, un indebolimento delle risposte muscolari o sintomatologie di malessere diffuse, che ci costringono a rallentare e fermarci. Addirittura, a volte, la tensione che scarichiamo sulla bocca, stringendo i denti, genera tensioni che si ripercuotono sulla testa e sul collo, provocano cefalee muscolo-tensive: chi ha avuto questo tipo di mal di testa sa che, in ultima analisi, l’unico modo di stare “meno peggio” è evitare stimoli sensoriali quali suoni, luci… costringendoci a richiuderci, magari al buio, a contatto con noi stessi ed i nostri pensieri.
Anche se non è possibile stabilire una regola fissa ed univoca in base ad ogni sintomo, è assolutamente fuori luogo creare una tabella di malattie e del loro significato, visto la ovvia variabilità individuale, diventa importante capire come, nella storia di ognuno di noi, i segni rappresentano un messaggio per la comprensione della “stupida saggezza” che sottostà ai comportamenti del nostro io più profondo ed intimo.
Osservando la trama di alcune malattie, quali ad esempio la sclerosi multipla, si osserva che tendono a colpire persone che per lungo tempo, spinte dal senso del dovere, si sono fatte carico degli altri per poi sviluppare una malattia che comporta una forte componente di dipendenza dagli altri. È interessante notare, ancora una volta, il paradosso intrinseco.
Oppure diventa degna di attenzione la relazione fra le manifestazioni di “fatica cronica”, che impediscono una vita dinamica, ed un modo di vivere, prima della malattia, caratterizzato da eccesso di pressione, scandito da ritmi che privavano la persona di ogni energia. La fatica derivante da un “eccessivo spreco” delle risorse disponibili, l’incapacità o l’assenza della volontà di ascoltare i messaggi che il corpo ci invia, porta queste persona a “scaricarsi”, come una pila esausta, e a perdere progressivamente ogni capacità di reazione.
Per quanto possa sembrare incredibile, possiamo riconoscere in ogni malattia un “assurdo” o meglio un imprescindibile meccanismo di autoregolazione che si riflette sulle basi biochimiche ed organiche dell’individuo.
Ogni sintomo, ogni segno che il nostro corpo ci invia, parla un linguaggio che ognuno di noi potrebbe comprendere “ascoltando” l’insegnamento che la nostra conoscenza diffusa ci offre. Uno strumento preziosissimo per un percorso terapeutico che vada oltre la semplice tacitazione dei sintomi.
Ricordiamoci che “il manovratore” che gestisce la nostra vita non è pazzo, anche se talvolta si comporta in maniera incomprensibile, seguendo le proprie imprescindibili priorità, come un pilota automatico che dirige la nostra vita procedendo lungo coordinate che, in un certo momento della nostra esistenza, abbiamo deciso.
La terapia
Il significato originario del termine greco “therapeia” è servizio, accompagnamento, assistenza: il terapeuta non è quindi la persona che “da ciò che è comunemente considerato corretto” a chi soffre, ma la persona in grado di aiutare il corpo, la persona nella sua totalità a comprendere il bisogno che sottostà la richiesta d’aiuto che il corpo manifesta. Colui che aiuta chi patisce a comprendere ciò che è giusto.
Se accettiamo che “il manovratore non è pazzo”, che nessuno di noi è orientato all’autodistruzione, ma ad una forma di equilibrio, possiamo capire l’importanza di assecondare il processo di crescita intrinseco alla malattia stessa.
Questo principio è applicabile sia alla medicina convenzionale che alla psicoterapia, anche se è evidente che i modelli di riferimento a cui si ispirano queste discipline ne rendono difficile l’applicazione. Dissimile è il discorso per le discipline bio-naturali che invece basano il proprio modello sulla visione di riarmonizzazione e riequilibrazione del corpo.
Poiché la malattia diventa solamente, in questa prospettiva, l’espressione ultima del processo degenerativo prodotto dallo stress ed il deterioramento causato dal perdurare del rifiuto di comprendere le informazioni che il corpo ci mette a disposizione, diventa evidente che lo stesso concetto di diagnosi e di terapia cambiano completamente significato.
Il processo diagnostico non è un futile processo intellettuale mirato ad “etichettare” la malattia, ma il percorso che porta a identificare i significati del malessere, le vere motivazioni che hanno causato il sintomo. Rilevare una protrusione discale, senza conoscere perché il corpo ha veicolato le proprie tensioni proprio in quel punto, quali sono gli squilibri che hanno generato quel particolare schema di lesione, può rivelarsi fallimentare da un punto di vista terapeutico: significa “curare” la lesione terminale di una catena tensiva, di un percorso degenerativo causato dallo stress, ma non eliminare gli squilibri che possono ricreare ulteriori danni.
Attenzione, non è nostra intenzione sostenere che le malattie non debbano essere trattate anche da un punto di vista medico, quando si possono rivelare pericolose per l’individuo, ma riteniamo che l’esclusiva soppressione dei sintomi sia controproducente per il benessere globale della persona.
Il “processo di guarigione”
Se il sintomo, caratteristica peculiare della malattia, diviene lo strumento attraverso cui il corpo manifesta una parte di noi che non è ancora emersa alla coscienza, cioè l’insieme delle emozioni represse o inesplorate che vogliono manifestarsi, il processo di guarigione consiste nell’integrare queste conoscenze e nell’offrire al corpo le risorse e le energie per trovare un nuovo equilibrio.
Il ruolo del “terapista” delle discipline bio-naturali diviene pertanto quello di effettuare una “diagnosi” non della patologia (di competenza del medico o dello psicoterapeuta), ma della sofferenza, cioè del “patimento” che sta alla base del sintomo stesso.
Se supponiamo che ogni manifestazione sintomatica sia, quindi, l’espressione di un atteggiamento antalgico nei confronti di una zona d’ombra di noi stessi che richiede di essere indagata e, nello stesso tempo, l’espressione della percezione soggettiva del senso di impotenza ed incapacità a risolverla, allora il ruolo del terapista si “riduce” a quello di favorire la “risoluzione dello stress”.
Un esempio di questa visione “terapeutica” è percepibile nelle modalità operative della terapia cranio-sacrale e nelle differenze fra questa e l’osteopatia craniale.
Entrambe le discipline mirano a “correggere” gli squilibri presenti nel “sistema cranio-sacrale”, ad armonizzare l’insieme delle strutture anatomiche (ossa, membrane di rivestimento, strutture nervose, liquidi) che garantiscono il buon funzionamento del nostro sistema nervoso.
L’osteopatia craniale parte dal presupposto che esistano delle “lesioni” (faults) delle articolazioni craniche, che debbono essere corrette, attraverso micro-manipolazioni, per ristabilire l’equilibrio del corpo.
Nella visione del Cranio-Sacral Repatterning tali squilibri sono l’espressione di un processo di adattamento del corpo alle forze che agiscono sul sistema cranio-sacrale stesso: la semplice correzione meccanica, senza la contestuale liberazione delle risorse presenti nel corpo e la risoluzione delle tensioni che hanno causato lo scompenso, non solo rischia di essere insufficiente o instabile (non essendo state risolte le cause che hanno creato la lesione/compenso), ma talvolta può essere responsabile di un ulteriore stress per il corpo.
In questa ottica, solamente la liberazione delle restrizioni “immagazzinate nei tessuti, espressione delle energie imprigionate nei tessuti dall’organizzazione dei traumi e delle emozioni ad esse connessi, può risolvere lo squilibrio che causa le lesioni.
L’energia liberata dal processo di emancipazione diviene lo strumento del processo terapeutico, il sostegno dello spontaneo riassestamento delle strutture corporee, che possono esprimere la propria naturale propensione al benessere.
Nel momento in cui offriamo al corpo gli strumenti e l’energia necessari per portare a termine i processi di cambiamento ed adattamento, che sottostanno alle manifestazioni sintomatiche, creiamo le condizioni perché i processi possano completarsi attraverso dinamiche meno dannose rispetto alle manifestazioni “patologiche”.
In ultima istanza, garantiamo che il cambiamento e la crescita dell’individuo avvengano senza stress.