Essere

a gesti o parole,
esprimiamo il nostro vero io,
portando alla realtà
ciò che la mente
talvolta sceglie di trattenere.

Mi sento un nodo in gola, come se qualcosa mi impedisse di parlare, di esprimere a gesti e a parole ciò che dentro di me urla, come un’energia che vuole esplodere…

Vorrei avere il coraggio di dire, prima di tutto a me stesso, ciò di cui ho bisogno per onorarmi e rispettarmi, portando alla realtà e nella realtà ciò che talvolta non oso confessare.

Che cosa vorrei dire?

Che cosa non vorrei aver detto?

Ho più paura di vivere o di morire?

Il tempo nasce in noi, esce da noi e fugge con noi, lasciando segni indelebili in noi, come granelli di sabbia che scorrono lungo l’istmo di una clessidra, in grado di lasciar passare ciò che è pieno verso ciò che è vuoto. “E sembra non ci sia carità; che il mondo sia un’arida clessidra, e noi come sabbia, dentro, vi scivoliamo”

Come un antico orologio, simbolo del fluire del tempo e della caducità della vita umana, il collo, la gola, la tiroide e tutte le strutture nervose presenti nel collo rappresentano uno stretto passaggio fra la testa ed il corpo. Una stretta connessione fra l’idea e l’espressione dell’azione, fra il concepimento e la realizzazione.

Come una clessidra scandisce lo scorrere della vita lasciando scivolare, a seconda della dimensione dell’istmo, più o meno velocemente i granelli di sabbia dal pieno al vuoto, così il nostro collo diventa il trait d’union fra il pensiero in azione e l’emozione che ci porta la consapevolezza.

Ma che cosa succede se questo canale di passaggio, questo istmo che dovrebbe permettere il fluire dell’energia nelle sue forme, si restringe, si comprime, si blocca? Il fluire della vita si arresta e con esso la nostra capacità di bruciare le nostre energie, di aggredire la vita col movimento, perdendo il contatto con le percezioni che giungono, attraverso la nostra sensibilità, alla consapevolezza.

Come se ogni gesto divenisse irreparabilmente lento, come se il tempo si fermasse lasciando che la polvere della vita diventi concrezione che si stratifica su di noi, rallentandoci ulteriormente ma, anche, proteggendoci con questo scudo, come un’ostrica attaccata alla propria roccia, che apre le valve solamente per sopravvivere.

O all’opposto, quando la tensione che nasce dall’esplosione ci porta ad accelerare ogni respiro, a consumare intensamente la vita, per paura di perderne un solo attimo, con i nostri occhi proiettati verso il futuro in un corpo che brucia ogni grammo di energia, rendendoci talmente percettivi da desiderare di spostarci sempre un passo in avanti.

Regolati da un orologio che scandisce il nostro individuale tempo biologico, che determina la nostra introflessione o la nostra proiezione, governiamo il nostro essere, la nostra espressione attraverso il coraggio di esprimere la nostra verità.

Chi potrebbe pensare che stiamo parlando della tiroide?

Eppure la tiroide è l’organo che incide sul nostro momento, un metronomo che determina quanto velocemente il corpo brucerà le proprie energie o, all’opposto, le lascerà sedimentare. Comandata dal complesso Ipotalamo-Ipofisario, l’interfaccia fra emozioni/sentimenti e risposte biologiche, regola il nostro metabolismo e le nostre attitudini comportamentali. Determina il continuo oscillare fra il dentro ed il fuori, fra l’alto ed il basso, alternando momenti di accelerazione e proiezione in avanti a rallentamenti ed introiezioni.

Talvolta il nostro orologio si blocca in accelerazione, come se il tempo ci sfuggisse di mano rendendo indispensabile l’esperire ogni attimo, quasi che il sonno divenisse una perdita del poco tempo che ci pare rimanere.

Talaltra la paura di vivere ci spinge a cercare di rallentare quel flusso vitale che ci scorre intorno. O ancora il nostro desiderio di spegnere quell’orologio, di punire quell’implacabile scorrere della vita, come granelli di sabbia fra le dita, ci induce a reagire contro noi stessi, come in un’auto-punizione ed ad aggredire il nostro stesso corpo, la tiroide stessa, scatenandole contro il nostro sistema immunitario, cercando di isolarla all’interno di una palizzata, come se questa potesse neutralizzarne l’effetto. Fino a costringerla a cercare di vivere una vita propria, anche a danno del corpo che la ospita.

Le concrezioni del non detto, del non espresso, del non fatto, del non sentito, si stratificano nel nostro collo, togliendole il nutrimento, alterandone l’attività. Come tartarughe che tirano il collo dentro il guscio protettivo, alteriamo l’istmo della nostra clessidra, la comprimiamo, la soffochiamo, come se un cappio le si stringesse intorno. Un laccio che vuole frenare il nostro essere, vuole nasconderlo, forse proteggerlo.

Perché esprimendoci ci renderemmo ancora più vulnerabili.

Perché lasciando che i nostri sentimenti si manifestino, che i nostri pensieri, attraverso il suono della nostra verità, divengano reali potremmo correre il rischio di portarci in conflitto proprio con coloro che vorremmo vicini.

Perché mostrandoci e svelando le nostre verità temiamo che la vita ci costringa a prenderci le nostre responsabilità.

Dimenticando che, in fondo, siamo noi e solamente noi a tenere in mano l’estremità di quel nodo scorsoio …