ultimo aggiornamento: 13 Agosto 2023 alle 23:34
«L’anima umana desidera sempre, essenzialmente,
e mira unicamente al piacere,
ossia alla felicità, che considerandola bene,
è tutt’uno col piacere»
(Giacomo Leopardi – “Zibaldone” – 1820)
→introduzione
→definizione
→considerazioni
→ addizione: che fare?
Cosa succede quando, nella ricerca del piacere e di una irraggiungibile felicità, perdiamo la consapevolezza di noi stessi e dei nostri reali bisogni?
Quando il nostro bisogno di essere felici diviene una ossessione volta a soffocare le ansie che fingiamo di non avere, le paure che ci condizionano nel quotidiano portandoci a mettere in atto atteggiamenti fobici, volti ad evitare di entrare in contatto con la nostra più profonda sofferenza, allora, la dipendenza da ciò che, apparentemente, ci rende felice diviene una addizione, cioè una ricerca spasmodica, compulsiva.
Forse pochi esseri umani, soprattutto al giorno d’oggi, sono in grado di vivere secondo un’atarassia epicurea (dal greco antico ἀταραξία, “assenza di agitazione”, “tranquillità”), in grado di liberarci dalle paure e dai turbamenti: la maggioranza degli esseri viventi «desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere» per poter trovare un sano equilibrio fra le differenti componenti della vita, per migliorare il proprio stato di ben-essere, anche se, in questo percorso, la ricerca di ciò che spesso chiamiamo amore diviene la necessità di compensare la sua perdita o assenza attraverso l’attaccamento a qualcosa apparentemente tranquillante, a qualcosa che possa svolgere il ruolo di riempitivo.
Quando, per fuggire dalle emozioni foriere di un senso di mal-essere, per eludere e negare il senso di vuoto che talvolta dal vuoto, ci attacchiamo ad un riempitivo, allora, diveniamo vittime delle addizioni.
definizione
Con questo termine, direttamente tradotto dall’inglese addiction, si vuole descrivere la dimensione comportamentale della dipendenza, la ricerca compulsiva dell’oggetto o la ripetizione compulsiva di un determinato comportamento, senza il quale l’esistenza perde di significato: in pratica si fa riferimento ad una vasta gamma di condotte disfunzionali nelle quali l’oggetto di dipendenza non è una sostanza ma un comportamento o un’attività lecita e socialmente accettata; non di rado lo sviluppo di comportamenti additivi è la risposta adattativa al distress ed al disconfort che nasce da stati di ansia o angoscia che generano fissazioni ed ossessioni che possono essere gestiti solo attraverso l’elaborazione di metaprogrammi di sopravvivenza e la predisposizione di sistemi di credenza che comportano la reiterazione di comportamenti salvifici, cioè di addizioni.
Si potrebbe affermare che l’addizione sia una relazione patologica con qualsiasi esperienza che possiede intrinsecamente la capacità di alterare lo stato emotivo o l’umore creando profonda dipendenza e che ha conseguenze dannose per la vita: la peculiarità dell’addizione è che, per chi la subisce, assume il ruolo di “tranquillante” che rinforza la relazione dipendente.
L’etimologia del termine inglese addiction può essere fatta risalire alla trasposizione anglosassone del latino addictio (→ assegnazione, condanna), che denota lo stato o la condizione di essere dedito o devoto a qualcosa: a sua volta questo lemma deriva dal verbo addicere (assegnare), assumendo il significato “physically and mentally dependent” (→ fisicamente e mentalmente dipendente o “devoted to a particular thing or activity” (→ dedicato a una particolare cosa o attività): il termine addictio, nella lingua latina, veniva utilizzato per denominare il provvedimento con il quale il pretore assoggettava il debitore al potere del creditore insoddisfatto, pronunciando uno dei tre verbi in cui tradizionalmente si esplicava la sua giurisdizione (do, dico, addico). L’addictus, cioè la persona debitrice, veniva trattenuta solitamente presso il creditore al fine di sfruttarne la forza-lavoro: in un certo senso si può immaginare che chi soffre di una tendenza additiva sia, in qualche modo, vincolato o incatenato al debito che ha contratto con se stesso e con le proprie paure.
Il termine addizione, in realtà, può essere anche inferito all’utilizzo di sostanze stupefacenti ma, come anticipato è più connesso alle condotte disfunzionali associate alle dipendenze, o meglio, alle “nuove dipendenze” che descrivono la soggezione e la sottomissione a normali attività, che spesso sono definite di routine, e che per alcuni assumono connotati di vere e proprie dipendenze comportamentali, con significative compromissioni del funzionamento psichico, emotivo e relazionale, o a comportamenti borderline che, se espletati in “modica quantità” sono socialmente accettabili (gioco, d’azzardo, consumo di alcoolici, shopping, lavoro, sesso …) ma che “oltre il limite” assumono le caratteristiche di patologia o quadro morboso (ludopatia, alcolismo, shopping compulsivo, workholism, ipersessualità o sex addiction …).
considerazioni
Il disagio psichico e il malessere presente nelle nuove forme di dipendenza è portavoce di un cambiamento culturale e sociale, tipico dell’epoca attuale: il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, definisce la società attuale come basata su una “post-modernità fluida”, contraddistinta da un alone di precarietà che investe la vita nella sua interezza, creando un contesto privo di certezze, di prospettive future concrete, di punti di riferimento solidi, di sicurezze e di legami stabili, generando le condizioni ideali per l’ansia anticipatoria ed una visione distopica del futuro; se da un lato si divulga un’idea contorta di impunità ove si manifesta un ingannevole senso di libertà e l’assenza di vincoli, dall’altro questo mondo senza confini può creare, a livello emotivo, un profondo senso di confusione e disorientamento con un bisogno sempre maggiore di controllo e di vulnerabilità alla dipendenza, nel tentativo di gestire (coping) il disconfort ed il dis-stress.
L’utilizzo sempre più massiccio di “comunicazioni a distanza” ha creato comportamenti forieri di alterazioni nei rapporti fra gli individui: ancora una volta si osserva un dualismo che genera da un lato un allontanamento delle persone dal contatto e dalle relazioni interpersonali, dall’altro una dipendenza sempre più marcata da internet e dai dispositivi informatici e tecnologici, che diviene l’elemento causale dello stravolgimento nella comunicazione e nello scambio, con l’instaurarsi di molteplici condotte disfunzionali legate all’uso inappropriato e compulsivo di tali strumenti; si può asserire che «queste nuove forme di dipendenza rappresentino un crescente desiderio di evasione dalla realtà ed un’incapacità di tollerare il dolore mentale che porta spesso alla ricerca di sensazioni alternative più piacevoli messe in atto con modalità sempre più compulsive.» (Vincenzo Caretti, Daniele La Barbera – “Le nuove dipendenze: diagnosi e clinica” – 2012.)
Come già anticipato, le nuove dipendenze, definite “senza sostanza”, fanno riferimento ad una vasta gamma di comportamenti come il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo, la new technology addiction (dipendenza da tv, videogiochi, internet, smartphone, social network), cyberdipendenza, la dipendenza dal lavoro, la dipendenza dall’esercizio fisico, la dipendenza dal sesso, la dipendenza dalle relazioni affettive: si tratta di azioni e comportamenti usuali che, di per sé, possono essere considerati, solitamente, gratificanti e socialmente accettabili anche se possono assumere la forma di addizione che assorbe completamente la personalità di chi ne diviene succube creando un grave dis-stress; «la differenza tra un sano entusiasmo, sebbene eccessivo, e la dipendenza patologica è che i sani entusiasmi arricchiscono la vita, mentre le addiction la impoveriscono» (Mark D. Griffiths – “A ‘components’ model of addiction within a biopsychosocial framework” – 2005).
Si innescano circoli viziosi ancorati ad un delirio patologico, dove la causa della dipendenza diviene l’illusoria sorgente di un irrealizzabile appagamento del sé: sono presenti gli elementi tipici delle dipendenze da sostanze come le crisi di astinenza quando non è possibile svolgere l’attività oggetto dell’ossessione, la necessità di implementare il comportamento al fine di soddisfare il bisogno compulsivo, l’incapacità di limitare la propria condotta, l’elevato impiego di risorse in termini di tempo e energie; comprendere quando un comportamento etico diviene un’addizione è molto difficile, essendo alcune fra queste tendenze additive considerate non solo socialmente accettabili, ma addirittura lodevoli: si pensi ai soggetti workaholic, cioè le persone affette da dipendenza dal lavoro, che dedicano gran parte del loro tempo e della loro energia alla professione, arrivando a trascurare la propria famiglia e il proprio tempo libero.
A livello comportamentale è difficile distinguere una addizione da una dipendenza da sostanze: entrambe comportano, in ultima analisi, la presenza di desiderio compulsivo (craving) e conseguente ricerca continua di soddisfare il bisogno che sta alla base della “servitù”: chi soffre di questo comportamento morboso, per sentirsi gratificato, attua comportamenti volti a creare piacere (somato-emozionale) ma, in genere l’appagamento è transitorio ed insufficiente, con il derivante incremento della voglia di esaudire il bisogno di gratificazione, ripetendo le azioni ossessive in misura ancor maggiore ed andando incontro al fenomeno dell’escalation, un sempre maggiore ingigantimento della frustrazione e dei comportamenti disfunzionali.
addizioni: che fare?
La consapevolezza è sempre il primo passo verso un miglioramento del proprio ben-essere: per quanto le dipendenze e quindi le addizioni siano patologie della neurofisiologia cerebrale, sul piano fenomenologico, sono caratterizzata da dinamiche compulsive che creano la perdita dell’autocontrollo, con la conseguente incapacità di dire “no” all’oggetto della propria alienazione e sul quale la volontà non ha più alcuna presa; l’addizione può essere considerata una sindrome dell’eccesso, del “troppo”, dell’”iper” (consumo) e delle emozioni che devono essere consumate per cercare di placare la ricerca onanistica di un apparente godimento.
In realtà il piacere superficiale delle addizioni, che mira a lenire l’ansia sottostante, genera sofferenza fisica e afflizione psicologica in coloro che ne sono avvinti, senza contare le ricadute negative che si possono manifestare sulle persone vicine: quelle stesse persone che, talvolta, sono la causa del mal-essere o che contribuiscono a mantenere i comportamenti additivi per effetto della codipendenza; la brusca interruzione di una addizione, viene vissuta come una privazione traumatica, comportando uno stato di “mancanza”, accompagnato per la maggior parte del tempo da una sindrome d’astinenza.
Il cervello umano può essere considerato un “generatore di previsioni”, in grado di calcolare costantemente ciò che è più probabile che accada e se l’esito sarà benefico o dannoso; le esperienze ed i vissuti emozionali servono per calibrare le scelte (… o le non scelte) verso ciò che prevediamo soddisferà i nostri bisogni: idealmente, attraverso la sperimentazione e la conoscenza, otteniamo più controllo e ottimizziamo la capacità di scegliere anche se, in alcune situazioni, i processi di elaborazione delle esperienze possono generare condotte disfunzionali e, creando paure e ansie, fobie e ossessioni, degenerare nell’addizione alterando l’equilibrio tra scelte e benefici.
La potenza intrinseca nella creazione di una addizione (un metaprogramma finalizzato a reiterare un comportamento in risposta ad un distress) risiede nel fatto che, inizialmente, è divertente, eccitante, rilassante e gratificante, cioè capace di ridurre l’ansia sociale o l’assenza di piacere; col tempo, però l’addizione non solo non è più sufficiente a ridurre il mal-essere e la sofferenza ma spinge a cercare di annichilire la sofferenza con un’accentuazione del comportamento disfunzionale: mano a mano che l’addizione diventa radicata, la dipendenza si rafforza, rendendo sempre più difficile uscire dal loop negativo della “volizione fragilizzata”, cioè del progressivo indebolimento della facoltà non solo di decidere, ma di volere al punto da essere determinato ad agire.
In questo contesto, la “devascolarizzazione” di certe aree cerebrali dipendente dalla reazione di stress, che attiva l’asse H.P.A. inducendo il sistema limbico a prendere il sopravvento sulle aree corticali della neo-cortex, crea sia una dissociazione/alienazione che comporta la perdita dell’autotelia, sia una alterata cognizione del tempo che comporta che le persone con tendenze additive preferiscono dare la priorità alle gratificazioni a breve termine, rispetto ai traguardi a lungo termine: durante le addizioni (e le dipendenze) anche la coscienza viene alterata portando allo sviluppo di pensieri disperati su se stessi e sul futuro (che viene visto in chiave distopica), all’ansia anticipatoria, all’angoscia ed all’egodistonia.
Chi vive secondo le dinamiche derivati dall’addizione, difficilmente si rende conto o realizza che i propri comportamenti dipendendo dalla propria dipendenza, pertanto, non ci si può aspettare una reale collaborazione da queste persone che tendono a negare il problema, riducendo le possibilità di essere aiutati; l’accettazione dell’esistenza del problema è il primo passo necessario per intraprendere un cammino verso il ben-essere: il disconoscimento del problema è l’essenza del problema stesso.
L’intervento di un professionista del ben-essere, può rivelarsi di grande aiuto in quanto, grazie alla valutazione multidimensionale basata sul triangolo della salute, è possibile identificare quali complementi terapeutici (somato-emozionali, biochimici, spirituali …) siano in grado di sostenere il processo di reset, cui necessariamente deve sottoporsi chi è affetto da questo quadro morboso: risulta evidente che l’idea stessa di favorire un reset totale, in questo contesto, descrive e sottintende il concetto di “rimettere a posto”, far ripartire il “sistema operativo”, soprattutto se è entrato in blocco.
Per invertire il processo autodistruttivo, è necessario ripristinare l’equilibrio delle scelte; l’effetto del reset può essere quello di implementare le capacità di interazione, così che sia possibile raggiungere un nuova stabilità ed, eventualmente conseguire uno stato di reale eustress: in questo caso la trasformazione deve essere vista come l’espressione della capacità di coping, divenendo lo strumento necessario per superare gli squilibri e raggiungere un nuovo livello di ben-essere.
Il Cranio-Sacral Repatterning®, la Kinesiologia Transazionale® e la Kinesiopatia® offrono differenti tecniche finalizzate a restaurare una condizione ottimale non solo funzionale ma anche somato-emozionale: se partiamo dal presupposto che una serie di eventi, azioni o circostanze abbiano alterato il nostro “setting”, attraverso procedure specifiche è possibile reintegrare la stabilità pregressa o adeguare l’organismo a nuovi contesti: il nuovo “set di istruzioni” è il risultato non solo dell’azione di ripristino dell’equilibro somato-posturale (habitus) o del miglioramento della biochimica corporea, ma anche il frutto di un processo di elaborazione dei vissuti e delle emozioni generate dalle perturbazioni o dei blocchi a cui siamo stati sottoposti; quando questo si verifica, dobbiamo considerare i risultati raggiunti come l’espressione di una rinnovata capacità allostatica che permette di trasformare le difficoltà in sfide, di convertire un “dis-stress” in un ”eustress“, ritenendo che gli eventuali cambiamenti raggiunti siano step evolutivi, ovvero la manifestazione di un “miglioramento”, qualitativo o quantitativo, della vitalità.
Le procedure di “normalizzazione” hanno il compito di interrompere i “programmi per la sopravvivenza”, che rimangono attivi, pur non essendo più idonei al contesto, e di riportare il “sistema corpo” alle condizioni di funzionamento precedenti allo squilibrio; lo scopo è il ripristino della corretta cibernetica corporea, per permettere la piena disponibilità della forza vitale e attivare quella “vis medicatrix naturæ”, presente in ognuno, indispensabile per promuovere i meccanismi di autoriparazione e rigenerazione.
Le tecniche di reset sono in grado di sovvertire il perpetuarsi dei circoli viziosi, disinnescando la reiterazione di programmi “istintivi” che, grazie all’effetto domino, portano al fallimento dei sistemi metabolici ed all’incapacità fisica di fronteggiare i problemi; il prodotto di questo dissesto è aggravato dalla contestuale riduzione delle capacità di coping che, sincronicamente, genera una sorta di profezia che si autoavvera, in modo circolare: ogni peggioramento genera un nuovo peggioramento che coinvolge le differenti sfere dell’essere.