ultimo aggiornamento: 12 Novembre 2023 alle 19:08
definizione
L’essere recidivo, ovvero l’inclinazione e la tendenza a recidivare, cioè a “ripiombare” nelle manifestazioni morbose: il riacutizzarsi di un processo morboso o di una situazione patologica (apparentemente) già risolto o in via di guarigione; dal latino recidivus, derivato di recĭdĕre (→ ricadere), composto di re– (→ prefisso che indica la reiterazione o la ripetizione) e cadĕre (→ cadere, accadere, trovarsi, scivolare), descrive lo stato di chi è ricaduto in una situazione negativa, per sua volontà, involontariamente o accidentalmente.
recidiva – ricaduta – ciclicità
Mentre la recidiva può essere anche definita (entro certi limiti) una ricaduta, occorre distinguerla dalle manifestazioni o patologie definite “ricorrenti”: siano sintomi ricorrenti o malattie ricorrenti, queste possono essere definite come il ripresentarsi, con una certa frequenza, di manifestazioni disfunzionali o di patologie (oppure dei sintomi ad esse associate), dopo un periodo di remissione, cioè il ciclico ripresentarsi di uno stato morboso, caratterizzato da una periodicità nella ricomparsa, intervallata da periodi di normalità più o meno completa.
Viceversa per recidiva si suole intendere il ripetersi di una malattia (o delle sue manifestazioni) dopo che questa era stata ritenuta completamente e definitivamente guarita, mentre con il termine ricaduta si tende ad evidenziare il riaccendersi di una patologia o di un quadro sintomatologico appena risolti: in un certo senso nella recidiva il processo sarebbe completamente ex novo, mentre nella ricaduta è il ripresentarsi della stessa causa o dello stesso agente morbigeno che ha determinato la manifestazione patologica, che si risveglia e provoca nuove manifestazioni morbose; in realtà, nell’uso comune, si tende a usare i due termini come sinonimi riservando recidiva ad un ritorno di un mal-essere che si presenta dopo molto tempo, e ricaduta al riapparire delle manifestazioni morbose quando la malattia è in via di guarigione.
È interessante notare che, da un punto di vista sociale, per essendovi differenze marginali, recidiva e ricorrenza assumono “significati emotivi” e pesi specifici differenti: quando, nel corso delle conversazioni colloquiali, viene utilizzata la parola “ricaduta”, spesso si assume un atteggiamento giustificativo e tollerante, quasi consolatorio, anche nei confronti di comportamenti compulsivi o di errati stili di vita, come a significare che non v’è responsabilità, se non marginale, nell’essere caduto nuovamente in errore o essersi ancora una volta ammalato: frasi del tipo «poverino, ha avuto una ricaduta, nonostante …» oppure «con tutta la fatica che ha fatto per riprendersi (smettere, ricominciare ..) ha avuto una brutta ricaduta …» sono comuni. Nell’uso comune, invece, esiste una sostanziale differenza nell’utilizzo della parola “recidiva”, forse per l’uso giurisprudenziale che ne viene fatto; quando si sottolinea che qualcuno è recidivo, è come se si sottintendesse una sorta di reità o di colpa, come se tale “nuovo errore” fosse il frutto di comportamenti sospetti, financo dolosi, se non addirittura inidonei e lesivi.
la recidiva nel contesto clinico
Spesso il concetto di recidiva nasconde una involontaria mistificazione terapeutica, cioè la convinzione che la scomparsa dei sintomi corrisponda all’eclissarsi dei fattori eziologici che li hanno causati: nell’ambito dei processi terapeutici, non di rado, si tende a confondere la manifestazione con la malattia in quanto, bona fides, sia il “malato”, sia l’operatore professionale utilizzano il quadro sintomatologico come parametro di riferimento, trascurando che la manifestazione del “segno semeiologico” è, in realtà, l’espressione dell’incapienza da parte del corpo nei confronti degli stressor che hanno già depauperato le risorse organiche e le capacità di compenso.
Lo stesso concetto di remissione e di ricaduta evidenziano come si dovrebbe mantenere una maggiore oggettività nel definire “guarigione” quella che, nella migliore delle ipotesi, è una (anche lunga remissione, ovvero un periodo privo di sintomi, ma che inevitabilmente pone i presupposti per la presenza di ricadute e recidive; non bisogna dimenticare che nell’ultimo secolo, nonostante l’incredibile aumento delle conoscenze sulle cause delle malattie, la medicina ha sempre più focalizzato la propria attenzione sulla gestione dei sintomi: si pensi a quanti farmaci agiscano da soppressori, mirando a far eclissare i segni caratteristici di un processo morboso.
La disonestà intellettuale risiede anche nell’idea che sopprimendo (illusoriamente) l’agente morbigeno si elimini il nesso causale alla base del mal-essere: i painkillers (in nomen omen) “uccidono” il dolore ma non non rimuovono gli agenti eziologici algogeni, gli antinfiammatori riducono l’effetto dei processi difensivi messi in atto dall’organismo (seppure divenuti essi stessi fattori causali di squilibrio) senza sradicare i processi morbosi alla base della flogosi, gli antibiotici mirano a “togliere di mezzo” possibili agenti patogeni (talvolta incolpevoli) senza prendersi cura del terreno che ne favorisce l’impianto e l’attecchimento; per quanto, spesso, queste “cure” svolgano un ruolo fondamentale nella gestione della sofferenza, del dolore, delle malattie, intrinsecamente contengono le basi per favorire la recidività.
Se per recidiva si intende il ripresentarsi, a distanza di un tempo più o meno lungo, del processo patologico precedentemente debellato, a causa del persistere di condizioni predisponenti o fattori facilitanti il riproporsi del fattore patogeno, allora occorre esseri coscienti che se non si agiscono su quegli elementi causali cha agiscono come disponenti patologici, ovvero su tutte le condizioni o le cause che determinano una diminuzione dei normali poteri difensivi dell’organismo verso uno o più agenti morbosi, se non si mira a sanare i locus minoris resistenziæ che ci rendono vulnerabili, se non si favorisce la naturale tendenza dell’organismo verso l’autoconservazione e l’autoguarigione, se non si permette alla vis medicatrix naturæ di svolgere il proprio ruolo, se non si “lavora” attraverso una “medicina del terreno” per aumentare la capienza e la stamina organica, allora la recidiva diviene la naturale conseguenza delle “cure”.
Il recidivare rappresenta il ripresentarsi di una sintomatologia dello stesso ordine delle precedenti manifestazioni, anche se talvolta può dare un quadro clinico più complesso e di maggior gravità, in relazione alla possibilità che gli agenti morbigeni possano virulentarsi o che si verifichi una situazione di diminuita resistenza dell’organismo: la quasi totalità delle manifestazioni morbose mostrano una spiccata tendenza alle recidive, per il fatto che persiste nell’organismo la condizione abnorme che favorisce il loro esplodere.
recidive e reinfezioni
Esempio di recidive (o ricadute) sono le malattie infettive: anche se, solitamente, il superamento della malattia promuove l’immunità verso l’agente patogeno, il disconfort ed il distress, la debilitazione dell’organismo, l’incapacità organica di applicare adeguate strategie di coping, la presenza di spine irritative, co-fattori eziologici e fattori predisponenti possono creare un terreno fertile per una reinfezione (ovvero per una recidiva); talvolta è la stessa malattia a rendere vulnerabile l’organismo creando un locus minoris resistentiæ, un focus di debolezza che rende il corpo vulnerabile alla possibile reinfezione.
Si pensi a malattie più o meno comuni, come le tonsilliti, i raffreddori, l’influenza, l’erisipela, le polmoniti, il reumatismo articolare acuto, solo per citarne alcune ove, dopo un primo contagio, gli esiti stessi della prima infezione possono divenire un fattore facilitante che favorisce le ricomparsa dello stato patologico, recidivando con facilità; in questi casi non v’è dubbio che la stessa infezione sia responsabile dei vari stati morbosi, anche se possono esservi variazioni nei ceppi del microorganismo patogeno; in altre occasioni l’agente morbigeno della prima infezione, per garantire la propria sopravvivenza passa allo stato di vita latente (“infezione inapparente”) potendo rimanere indefinitamente, senza produrre alcun danno evidente all’organismo che lo ospita che sembra “guarito”, salvo risvegliarsi come conseguenza dell’azione di influenze che ne favoriscano la vegetazione, agendo direttamente su di esso o indebolendo l’organismo. In questo caso, si può parlare di “reinfezione endogena”, anche se talvolta la recidiva (reinfezione) può derivare dall’entrare in contatto con lo stesso microrganismo in comunità o nelle relazioni interpersonali: se all’infezione latente si aggiunge una nuova infezione proveniente dall’esterno, si parla di “superinfezione esogena”.
Un altro esempio di recidività è l’infezione da Herpes Zoster che nella prima infezione, solitamente in età giovanile, ha una tipica manifestazione clinica nota come varicella, ovvero una malattia esantematica contagiosa caratterizzata da un esantema vescicoloso (si manifesta con poca febbre e la comparsa prima di macule rosse, poi di papule, di vescicole e di pustole); superata l’infezione primaria, il virus permane allo stato di latenza nei gangli dei nervi sensitivi, rendendo possibile una riattivazione della virosi in forma di “fuoco di Sant’Antonio” (o fiamme di Satana) in caso di stress o diminuzione delle difese immunitarie, soprattutto quando raggiunge lo stato di immunocompromissione.