ultimo aggiornamento: 30 Agosto 2020 alle 13:46
definizione
La cosiddetta “sindrome da noia” deve essere considerata un disturbo psicosomatico in grado di causare disturbi non solo sul piano emotivo o psicologico, ma anche a livello fisico: il mal-essere è causato, principalmente, dal dis-confort e dal dis-stress derivanti da un insufficiente carico mentale sul posto di lavoro o in contesti dove sarebbe necessario applicarsi per conseguire risultati: la mancanza di un di lavoro quantitativamente o qualitativamente adeguato alle esigenze realizzative del soggetto, la “piattezza” degli stimoli didattici nella scuola o la mancanza di interesse delle lezioni, l’assenza di stimoli e gratificazioni possono portare al «bore-out» o al «rust-out» (che potrebbe essere considerato un sinonimo, per certi versi), una costellazione di sintomi riconducibili ad un quadro di ipostress.
Questa teoria è stata esposta per la prima volta nel 2007 in «Diagnose Boreout», un libro di Peter Werder e Philippe Rothlin, due consulenti aziendali svizzeri; una fra differenti cause riconosciute è il demansionamento, con riduzione delle responsabilità causate da una differenza significativa fra il lavoro a cui si era destinati inizialmente ed il lavoro effettivo che si è chiamati a svolgere: questo è il motivo per cui si considera il «bore-out» prevalentemente una “malattia professionale”
sintomi e conseguenze
Lo psicoterapeuta tedesco Wolfgang Merkle assimila i sintomi del «bore-out» a quelli del «burn-out»: depressione, alterazione dell’equilibrio emozionale, insonnia, ma anche tinnitus ed acufeni, suscettibilità alle infezioni, disturbi di stomaco, mal di testa, vertigini: le conseguenze agiscono sia sul piano emozionale/psicologico, sia su quello fisico come manifestazioni della noia, dell’insoddisfazione e della frustrazione permanente che portano le persone ad entrare, gradualmente, in un circolo vizioso, perdendo la volontà di agire a livello professionale e personale.
Alla incessante diminuzione dell’autostima si aggiunge la costante ansia di essere scoperti e classificati come incompetenti, «fannulloni» o «scansafatiche»; subentra la paura ricorrente che i supervisori, i colleghi o gli amici scoprano la propria inattività e la doppiezza di comportamento: la falsità che sottostà al dover sembrare impegnati contrasta con la frustrazione di sentirsi inutili, creando un’ambiguità che deve essere dissimulata e celata per non essere considerati inetti, incapaci o ingrati.
Il dover gestire l’insoddisfazione genera ulteriore stress che paralizza e affatica: quando, chi è affetto da questo disagio, è costretto a confrontarsi con la vacuità della propria vita professionale e la propria inutilità nella società, percepisce un senso di sofferenza, una sensazione di vacuità ed un sentimento di futilità che, non potendo essere condivisa o compresa, diviene particolarmente pesante, trasformandosi in uno stressor che agisce costantemente, logorando la persona.
Tutto ciò può comportare, nei casi più gravi, forme di depressione, disturbi mentali, disturbi della personalità e, nelle forme più estreme, tendenze al suicidio; sul piano fisico, il dis-stress che ne deriva diviene un fattore scatenante in grado di far emergere emicrania o cefalea, ipertensione, forme di esaurimento, gravi disturbi del sonno, tremori alle mani e alla voce o epilessia da stress, fuoco di Sant’Antonio, ulcere gastro-duodenali o sindrome dell’intestino irritabile, solo per citare alcune possibili forme di somatizzazione: un quadro riconducibile ad uno stato di iperattivazione del sistema simpatico, con ipertono catecolaminergico, ed al coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenali, conseguenti alla risposta generalizzata di adattamento messa in atto dal corpo per rispondere all’esaurimento somato-emozionale ed all’acedia, uno stato di «ennui» che ammorba l’individuo.
Dal punto di vista fisico, secondo lo studio britannico «Bored to death», i dipendenti che si annoiano al lavoro hanno una probabilità da due a tre volte maggiore di essere vittime di eventi cardiovascolari rispetto a quelli il cui impiego è stimolante; l’ansia permanente in cui vive il dipendente lo esaurisce fisicamente con conseguente senso di fatica costante nonostante l’inattività fisica. Talvolta si osservano disturbi alimentari come lo sgranocchiare continuamente (in modo inopportuno e compulsivo, favorendo il sovrappeso) o , al contrario, l’inappetenza; in alcuni casi si evidenzia il ricorso ad alcol o droghe per superare il disagio sviluppando così forme di dipendenza.
Secondo Peter Werder e Philippe Rothlin, il problema principale è l’assenza di compiti significativi, piuttosto che la presenza di stress; gli autori considerano noia, assenza di sfide e mancanza di interesse come fattori scatenati del problema: chi soffre di noia è “insoddisfatto della propria situazione professionale”, come conseguenza dell’essere frustrato, sentendosi bloccato da meccanismi istituzionali od ostacoli nel realizzare il proprio potenziale, anche per la propria mancanza di attitudine e l’assenza di riconoscimenti ufficiali per i propri sforzi.
Secondo i due ricercatori è improbabile che il «bore-out» si verifichi in attività che richiedo concentrazione per svolgere la propria attività o che si focalizzino sull’aiutare le persone bisognose: un dipendente che abbia pochissimo lavoro da fare o che si aspetti che gli venga assegnato un lavoro qualitativo inadeguato, da un lato vive un senso di frustrazione, dall’altro sente la necessità di dare l’impressione di “sembrare occupato”; le conseguenze saranno insoddisfazione, stanchezza, noia e scarsa autostima. Il paradosso della noia è che chi ne viene colpito, nonostante detesti la situazione, non si sente in grado di affrontare compiti impegnativi, o di confrontarsi con i propri superiori/datori di lavoro, o di cercare un nuovo lavoro.
Per assurdo, essendo i sintomi del «bore-out» sovrapponibili a quelli del «burn-out», con l’attuazione di strategie di elusione ed evitamento, chi è colpito da questo disagio sembra “molto impegnato” e stanco, incrementando quella spirale negativa che porta inevitabilmente ad un peggioramento della situazione: «lo scopo del “malato di noia” è quello di apparire impegnato, per non ricevere alcun nuovo lavoro e, come conseguenza, non perdere il lavoro», mettendo in atto strategie dilatorie, che prolunghino il tempo necessario per svolgere una mansione, o fingendo di essere “molto impegnato”, addirittura ricorrendo agli straordinari e fermandosi oltre il normale orario di lavoro.
strategie di coping
Come già anticipato, il senso di irrequietezza, l’incapacità a concentrarsi, il mal-essere ed il dis-confort, la difficoltà a gestire le dinamiche relazionali, l’acedia e l’abulia, assieme alle manifestazioni somato-emozionali associati al dis-stress, rendono il quadro sintomatologico completamente sovrapponibile sia all’ipostress ed al «bore-out», sia al «burn-out»; pertanto l’intervento di riequilibrazione dello squilibrio causato della noia, dell’insoddisfazione e della frustrazione permanente a livello professionale e personale possono essere affrontati in modo simile.
Ovviamente non è compito del professionista del ben-essere intervenire nell’ambito lavorativo, ma piuttosto lo scopo del suo intervento deve essere mirata a sostenere la persona per comprendere quali sono le dinamiche sottese a questo stato e quali possono essere le strategie per superare la dinamiche di elusione ed evitamento, favorendo lo sviluppo di una maggiore assertività. Per ottenere questo risultato è possibile intervenire su differenti piani, cercando di ridurre l’impatto che lo stress esercita a livello “mentale”, specialmente sulla capacità di “pensare” al di fuori degli schemi “convenzionali” o “ripetitivi”: le dinamiche di sopravvivenza tipiche della «fight-and-flight response», infatti, non fanno che riproporre dinamiche comportamentali reiterative e fruste, che, seppur vincenti in un dato momento della nostra storia personale, si rivelano, come minimo, insufficienti ed inadeguate nel presente.
Indubbiamente occorre considerare anche i sintomi, le discrasie e le manifestazioni somato-emozionali dello stress, le reali necessità fisiche dell’individuo: in poche parole il suo stato di “essere psico-somatico”.
In difetto di una strategia globale volta a considerare la persona nella sua interezza, la possibilità di di ottenere scarsi risultati o addirittura un fallimento “terapeutico” deve essere presa in considerazione; fra le competenze del professionista olistico non rientrano né la psicologia del lavoro, né, tantomeno, il work-management, ma, avendo la possibilità di bypassare la componente “mentale” ci sono concrete possibilità di creare le condizioni per quello”scatto” che spesso si concretizza in un radicale cambiamento di prospettiva e di orizzonte per la persona. Grazie alla possibilità offerta dalla possibilità di effettuare una valutazione multidimensionale, la Kinesiologia Transazionale® è in grado di prendere in considerazione la multifattorialità degli stressor che, comportandosi da cofattori eziologici o spine irritative, contribuiscono alla “paralisi” (freeze) decisionale o comportamentale; la possibilità di resettare gli effetti a dello stress, si rivela un passo fondamentale per favorire un cambiamento.