ultimo aggiornamento: 15 Settembre 2023 alle 13:24
definizione
Motto latino, talvolta espresso con il verbo al futuro nella forma “nemo me impune lacesset”, può essere tradotto con “nessuno mi avrà sfidato impunemente”, “nessuno mi aggredisce impunemente” oppure, semplicemente, con “non lascio (lascerò) nessuno impunito” o “nessuno mi provoca senza subire un danno”: per quanto questa locuzione sia in latino, non è un motto od un brocardo romano bensì, secondo la leggenda la frase venne creata per descrivere le conseguenze derivanti dall’importunare il “guardian thistle” (il cardo custode) ovvero l’Onopordum Acanthium, noto anche con il nome di “cotton thistle”, “Scotch Thistle” o “Scottish Thistle”:
Secondo una leggenda, che richiama quella delle oche capitoline, è grazie al cardo che gli Scozzesi vinsero una guerra contro i Vichinghi, permettendo la sopravvivenza del Regno di Scozia: per questo “nemo me impune lacessit” divenne il motto latino della dinastia reale degli Stuart di Scozia. Il motto è citato nel racconto “The Casque of Amontillado” di Edgar Allan Poe; un motto simile è “non inultus premor” (non posso essere toccato [schiacciato] invendicato [lasciando impunito]).
Talvolta questo motto viene associato al “noli me tangere” (non mi toccare) contenuta in questa forma nella traduzione della Vulgata del Vangelo secondo Giovanni (versetto 20,17), attribuita a Gesù che l’avrebbe rivolta a Maria Maddalena subito dopo la risurrezione, sebbene in questo caso il significato sia profondamente diverso in quanto l’attuale esegesi interpreta, anche in base al testo originale “Μή μου ἅπτου” (mê mou haptou), come “non mi trattenere”.
La locuzione “nemo me impune lacessit” esprime un sentimento opposto al lasciar andare, descrivendo l’atteggiamento piuttosto comune e diffuso e fisiologicamente connaturato alla emotività umana, di “non lasciar andare“, di “non mi lasciar perdere” ma piuttosto l’attitudine alla vendetta associato ad una minaccia, espressa quasi come una maledizione, di rivincita e punizione che esprime il desiderio di autoprotezione attraverso l’intimidazione del possibile “inultus”, ovvero della restituzione del danno subito.
non lascio nessuno impunito
Per quanto, da un punto di vista emotivo, si possa pensare che un torto subito, reale o immaginario, non possa essere in qualche modo “ripianato”, molto spesso, chi si sente ferito, si crea fantasie negative riguardo il fatto di avere un credito nei confronti dei propri “persecutori”, sognando di poter, prima o poi, “ora per allora” poter giungere ad un pareggio. In realtà questo comprensibile desiderio di vendetta costringe chi rimane imprigionato nel loop negativo
desiderio di vendetta
→ mancata soddisfazione del credito emotivo
→ ulteriore frustrazione (che incrementa il desiderio di essere ripagati)
ad essere ancorati, in negativo, ad una profezia autoavverantesi il cui risultato finale non può che essere il discomfort ed il distress; un tarlo rode e corrode nella vana ricerca di una soddisfazione che lenisca la piaga rimasta aperta.
Che sia la speranza che chi ci ha ferito abbia un tardivo pentimento o il desiderio di una rivincita, che sia il miraggio di una possibile riscossa o l’illusoria aspettativa di essere ripagati, meglio se con gli interessi, per ciò che ci è stato fatto, in genere, il risultato è una mortificazione che rafforza la nostra ferita: non importa che tutto questo avvenga senza che se ne sia consapevoli o se siamo ben consci del nostro mal-essere, l’esito finale è la creazione di un “irrisolto”, in grado di generare un “legame carmico”, cioè una relazione patologica con il nostro “nemico”, un “vincolo legante” capace di essere la radice che nutre l’egodistonia che ci impedisce di fare le scelte migliori per noi stessi, accompagnata, frequentemente da una costellazione di sintomi che comprendono scompensi d’umore, ansia, rabbia, distorsione della realtà, astio e livore, acredine e acrimonia, animosità, antagonismo e risentimento non solo verso il “colpevole del misfatto”, ma nei confronti di tutte le persone che poniamo (inconsapevolmente e involontariamente) nella posizione di “persecutori”.
A questo, talvolta, si aggiunge la consapevolezza della nostra incapacità di rispondere nei tempi appropriati, della possibile impreparazione a dare risposte adeguate o congrue che diviene un potente stressor: ciò può mettere in crisi la percezione che abbiamo di noi stessi, soprattutto quando l’autostima vacilla; il non aver trovato la risposta al momento giusto può anche significare che non era necessario controbattere e che si poteva lasciar perdere, che ciò che può apparire come una impreparazione fosse, in realtà, il sinonimo di una legittima e ragionevole fine del conflitto. Poiché non siamo stati sufficientemente reattivi e tempestivi a contrastare le “provocazioni”, ci si ritrova a rimuginare e mugugnare su ciò che non si è detto o su quello che si sarebbe potuto dire per spiegare meglio le proprie esigenze, il proprio punto di vista o per controbattere l’opinione altrui, con la conseguenza di incanalarsi nello “esprit de l’escalier”, nel “Treppenwitz” o, se si preferisce negli “afterthought”; in alcuni, il rammarico sfocia in un recondito desiderio di vendetta, nel ripromettersi una rivincita appena possibile, senza lasciar nulla di impunito, cercando di restituire ex post ciò che si è subito. Per dirla alla latina, “nemo me impune lacessit” oppure “nunc pro tunc” divengono il leitmotiv di un desiderio di rivalsa che può avvelenare la vita di chi lo subisce, proiettando sul presente e sul futuro le influenze del passato.
L’astio, il livore, l’acredine e l’acrimonia, l’animosità, spinge le persone a portare avanti ruggini nel tempo, come espressione di risentimenti di lunga data, rendendoli forieri di stress: questi conflitti silenti e non sopiti, ci portano a comportamenti divisivi che disperdono le nostre energie e non ci permettono di ottenere risultati di sorta (se non, talvolta, effimeri appagamenti egotici); tutto ciò nega la possibilità di un confronto sano, autentico e sincero, chiudendoci al dialogo.
Questa emotività ci sottopone ad una maggiore vulnerabilità alle aggressioni o alle provocazioni verbali (presunte o reali), facendo sì che ci si ritrovi in una situazione di disconfort e distress: siamo portati a giocare su un terreno non confacente al nostro modo di essere: sicuramente gli individui meno emotivi o proni a risentire delle aggressioni verbali, essendo pronti e allenati a replicare senza entrare in merito al contenuto dell’“offesa”, sono raramente predisposti a subire la “sconfitta”; sta a chi subisce l’onta decidere se scegliere di lasciare andare o rimanere imprigionato nella “non scelta” del perdurare con un atteggiamento revanscista, anche fuori tempo, alla ricerca di una vana vendetta e/o di una tardiva apparente rivincita.
“nemo me impune lacessit”, ci costringe alla “non scelta”, ovvero ci imprigiona nell’incapacità di lasciar perdere l’accaduto (ponendoci in una prospettiva di non superamento dell’evento e di accettazione), spingendoci a rimanere ancorati al disappunto che come un tarlo rode e corrode: l’egodistonia che ne discende può creare un “irrisolto”, in grado di generare un “legame carmico”, cioè una relazione patologica con il nostro interlocutore; il “vincolo legante” che sia crea, provoca scompensi d’umore, ansia, rabbia, distorsione della realtà, antagonismo e risentimento non solo verso il “colpevole del misfatto”, ma nei confronti di tutte le persone che poniamo (inconsapevolmente e involontariamente) nella posizione di “persecutori”.
La possibilità di sbloccare le “energie negative”, che ci ancorano in una situazione di impasse emotive, ci offre la possibilità di decidere se scegliere di superare il trauma, attraverso una sorta di remissione del debito, ponendoci in una prospettiva di superamento dell’evento e di accettazione: il lasciar andare il passato non solo ci libera dai vincoli che ci impediscono di progredire e dare spazio al nuovo, ma drena ogni energia, vincolandoci ed assoggettandoci al versante negativo dell’effetto San Matteo («Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.» Vangelo secondo San Matteo, versetto 25:29), come se una ipotetica legge di attrazione ci spingesse verso un avverso destino.
La remissione del debito è l’atto attraverso cui rinunciamo volontariamente all’essere creditori: non è un semplice abbuono o un perdono incondizionato, perchè non cancella il danno, né elimina il trauma o la sofferenza che scaturisce da esso, in quanto la cicatrice rimarrà per sempre. È una scelta che ci permette, «perché anche noi rimettiamo i debiti a chi ci è debitore» ( Vangelo secondo San Luca, versetto 11:1-4), innanzitutto di perdonare noi stessi, per ciò che abbiamo o non abbiamo fatto, attraverso il riconoscimento che i patterns che abbiamo adottato per convivere con la memoria del trauma e l’aspettativa di essere ripagati non sono più utili per noi: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.» (Isaia 43:18-19).
La remissione comporta l’estinzione dell’obbligazione, in quanto è un atto abdicativo che ci libera dal “vincolo legante” e che, solo come effetto riflesso, libera il nostro “presunto debitore”, nunc pro tunc praeterea preterea, non dalle sue colpe ma dall’influsso che esercita su di noi: allo stesso tempo libera noi dal “legame carmico” che ci impedisce di proseguire nella nostra vita perchè latori di un peso di cui non siamo responsabili, affrancandoci.
La Kinesiologia Transazionale® e la Kinesiopatia® offrono tecniche in grado non solo di ridurre lo stress, permettendo alle persone di uscire dalle dinamiche reattive tipiche della “fight-or-escape response” (che ci pone continuamente in una ottica di lotta), ma anche di affrontare, innanzitutto dentro di sé, i conflitti ripristinando la possibilità di aprirsi al dialogo: le tecniche di reset, come l’allentamento dello stress emotivo o la risoluzione dei “legami carmici” sono in grado di aiutare a rimodulare, a livello profondo, la modalità di risposta nei confronti dei nostri “irrisolti”, contribuendo a uscire dalla dinamica “persecutore”/“vittima” cui spesso ci troviamo imprigionati.
un po’ di storia
Si racconta che durante il regno di Alessandro III, re di Scozia, un gruppo di razziatori vichinghi sotto la guida di re Haakon IV di Norvegia, prima della la battaglia di Largs (1263), tentarono una sortita notturna: calpestando il “guardian thistle” e, di conseguenza lanciando un urlo di dolore, resero possibile la difesa, giocando un ruolo vitale nella difesa del Regno di Scozia; da questo nasce il motto “Nemo me impune lacessit” (nessuno mi molesta impunemente), ove “me” era originariamente riferito al cardo, ma per estensione, venne in seguito riferito ai reggimenti scozzesi che lo hanno adottato.
Per questo il motto venne adottato del Regno di Scozia, divenendo il motto latino della dinastia reale degli Stuart della Scozia almeno dal regno di Giacomo VI quando apparve sul retro delle monete Merk coniate nel 1578 e nel 1580; venne in seguito adottato dall’Ordine del Cardo e da tre reggimenti scozzesi dell’esercito britannico; compare anche, in concomitanza con il collare dell’Ordine del Cardo, nelle versioni successive dello stemma reale del Regno di Scozia e successivamente nella versione dello stemma reale del Regno Unito utilizzata in Scozia.
Un’altra fonte tradizionale associata al motto “nemo me impune lacessit” appare sotto forma di proverbio scozzese, “Ye maunna tramp on the Scotch thistle, laddie”, immortalato in marmo dagli scultori monumentali di Glasgow James Gibson & Co. per l’Esposizione Internazionale di Kelvingrove del 1888: la frase “che diavolo si immischia con me?” appare anche in una tradizionale ballata di confine intitolata “Little Jock Elliot”, che ricorda le gesta di un Border Reiver del XVI° secolo (John Elliot of the Park), con particolare riferimento a un famigerato incontro nell’estate del 1566 con James Hepburn, 4° conte di Bothwell, il terzo marito di Maria, regina di Scozia.
Come già anticipato, la città francese di Nancy ha un motto simile, “non inultus premor” (non posso essere toccato invendicato), anch’esso in riferimento al cardo, simbolo della regione della Lorena.