definizione
Pigrizia, mancanza di volontà e di forza spirituale, accidia, abulia, indolenza, infingardaggine, neghittosità, fino alla viltà ed alla codardia; dal latino ignavus, composto di in-(corrispondente al greco ἀ– privativo) e gnavus (premuroso, operoso, accurato), forma antica di navus (→ attivo, diligente, fatto con cura).
Il termine accidia viene spesso utilizzato come sinonimo di ignavia ma come tutte le parole possiede una vita a sé, evolvendo di significato e senso: l’accidia è una propensione alla noia e alla negligenza morale, un’avversione all’operare il bene. San Tommaso d’Aquino definisce l’accidia come “il rattristarsi del bene divino”, Soren Kierkegaard ne descrive l’aspetto introspettivo, affermando che “è peccato non volere profondamente e sentitamente”
Gli Stoici parlano di “ignava ratio” o “ragion pigra”, una singolare forma di accidia, descritta magistralmente da Immanuel Kant nella “Appendice della dialettica trascendentale alla Critica della ragion pura”, come lo stato della ragione che si compiace di sé nel momento in cui una ricerca può dirsi definitivamente conclusa: in realtà la ragione umana, per sua natura, non arriva mai a completa tranquillità, per questo motivo tanto l’ignavia, quanto l’accidia, sono veleni per lo spirito.
Quando votiamo la nostra esistenza all’effimero naufraghiamo in un mare di noia, d’inerzia, di torpore, provando un’insistente nausea, una vertigine che ci trascina sempre più in basso, verso un’esistenza vuota, deprivata della gioia, incapace di immaginare la felicità. Martin Heidegger, nella sua opera “Che cos’è metafisica?” parlando dell’ignavia, la definisce come noia e afferma che:
“La noia profonda che, come nebbia silenziosa, si raccoglie negli abissi del nostro esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi con tutto ciò che è intorno a noi, in una singolare indifferenza”
Jean Paul Sartre si spinge oltre, definendo tale noia come nausea di esistere, sospesi tra l’essere e il nulla: sull’orlo di questo baratro nichilista poco resta di vivo e vivace nell’animo umano che si trova in procinto di spiccare il volo nella disperata speranza che il vuoto sia consolatorio, pacifico e silenzioso.
l’ignavia nella Divina Commedia
Gli ignavi non prendono mai una posizione decisa, si insinuano nell’esistenza senza lasciare traccia di sé, capaci esclusivamente di nascondersi per non assumersi le proprie responsabilità: così Dante Alighieri, nel Terzo Canto dell’Inferno (Divina Commedia) descrive le anime malvagie degli ignavi, coloro che nella vita non dimostrarono né infamia né lode:
«l’anime triste di coloro che visser sanza infamia e sanza lodo»
Secondo Dante, le anime degli ignavi sono tiepide, pertanto le colloca nel vestibolo dell’inferno: sono persone che, per paura o per tornaconto, non prendono mai una posizione né una decisione; se ne stanno in disparte e per viltà attendono che la tempesta passi prima di schierarsi dalla parte per loro più conveniente, attraversando l’esistenza come ombre, senza fare nulla né di buono, né di cattivo. Hanno paura di agire, di esprimere liberamente le proprie idee, tendono a seguire la maggioranza per non avere fastidi, vili e pusillanimi, non vivono pur camminando su questa terra.
«fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa»
Dante pone gli ignavi nell’Antinferno poiché tanto Dio, quanto il Demonio, non vogliono saperne di loro: sono spiriti inquieti, le cui misere anime sono costrette a correre nude per l’eternità seguendo senza sosta un vessillo, tormentate da vespe e mosconi che rigano di sangue il loro corpo pungendolo continuamente; i loro piedi affondano nella terra cosparsa di vermi che si nutrono delle loro lacrime miste al loro sangue.
Il loro destino nel regno dell’oltretomba è tragico: sono indegni di meritare sia le gioie del Paradiso, sia le pene dell’Inferno, a causa proprio del loro non essersi schierati né a favore del bene, né a favore del male.
«E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”.
Ed elli a me: “Questo misero modo
tengon l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
delli angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé foro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.
E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.»
(Dante Alighieri, Inferno III, 31-51)