ultimo aggiornamento: 5 Dicembre 2023 alle 16:03
definizione
Detto anche, nella terminologia anglosassone, biomarker: può essere considerato come un indicatore biologico, genetico o biochimico che può essere messo in relazione con l’insorgenza o lo sviluppo di una patologia, come la presenza di un agente infettivo o l’esistenza di un tumore. Un marcatore biologico è una molecola che può essere misurato e che indica la presenza di una malattia, un cambiamento fisiologico, una risposta a un trattamento o una condizione psicologica: un biomarcatore molecolare è una molecola che può essere utilizzata in questo modo; ad esempio, i livelli di glucosio sono utilizzati come biomarcatore nella gestione del diabete. I biomarcatori sono usati in molti campi scientifici. Si utilizzano, in modi differenti, nei diversi stadi di sviluppo dei farmaci, negli studi clinici, anche casi come endpoint surrogati per indicare e misurare l’effetto di farmaci nelle sperimentazioni.
In biologia indica, soprattutto, una molecola che identifica la presenza di un determinato tessuto; può essere di ogni natura, ma sostanzialmente è proteico, o comunque polipeptidico, poiché sono le proteine ad essere tradotte dal DNA. Per questo motivo un marker è tale se è una molecola prodotta principalmente da quel tipo di cellula.
In genetica un biomarcatore (marcatore genetico) è un frammento della sequenza di DNA causa di malattia o di una certa predisposizione patologica.
In medicina, esempi di biomarcatori sono costituiti da composti radioattivi utilizzati in ambito diagnostico, da particolari anticorpi associati a una specifica infezione o da antigeni quali l’antigene prostatico specifico. Se il marker viene usato come un indice di malattia, dovrebbe essere prodotto solo in presenza di tale malattia. Pochi marker soddisfano tuttavia queste esigenze.
In epidemiologia e tossicologia un biomarcatore può essere utilizzato per valutare l’esposizione a varie sostanze ambientali. In questo caso, il biomarcatore può essere rappresentato dalla stessa sostanza esterna (ad es. particelle di asbesto o prodotti della combustione del tabacco) o da un suo metabolita.
In campo oncologico, il biomarcatore è una molecola implicata nello sviluppo del tumore: possono essere sostanze prodotte direttamente dal tumore – come ormoni, enzimi o altre proteine, che sono più o meno correlate con la crescita numerica delle cellule tumorali, oppure sostanze prodotte dall’organismo in risposta al tumore, come le proteine della fase acuta dell’infiammazione. I marcatori tumorali che sono entrati nella routine clinica sono quelli rilasciati nel sangue, la cui presenza può essere rilevata attraverso un semplice prelievo.
Oltre ai biomarcatori ormai classici, generalmente misurati attraverso un prelievo di sangue, l’individuazione di nuovi tipi di biomarcatori è al centro dello sviluppo della ricerca biomedica, sia in chiave di medicina preventiva, il cui obiettivo è l’individuazione precoce di fattori di rischio o della presenza di una malattia, sia della medicina personalizzata, che si propone di individuare trattamenti su misura specifici per singoli pazienti.
Per essere valido, un marcatore, uno biomarker deve poter essere misurato con precisione, in modo affidabile e in tempi rapidi e deve possedere un alto valore prognostico e predittivo, cioè essere in grado di predire la presenza di una malattia o la sua evoluzione (nel caso si tratti di un marcatore di malattia), o di dare indicazioni sul tipo di farmaco più indicato e sulla risposta (nel caso si tratti di un marcatore di risposta al trattamento); le caratteristiche richieste a un buon marcatore biologico sono, quindi:
→ correlazione specifica con la malattia (specificità);
→ predittività sul tipo di trattamento e sulla risposta;
→ possibilità di effettuare la determinazione con precisione, in tempi brevi (sensibilità);
→ relativa insensibilità a errori di campionamento.
biomarcatori per l’invecchiamento
Anche nello studio della senescenza è cruciale poter disporre di biomarcatori efficaci ad affidabili per misurare l’efficacia di un trattamento che viene proposto per tempi molti lunghi, anche per tutta la vita: ad oggi, i biomarcatori in uso danno informazioni più sui processi di aging che sullo stato di salute, pertanto la ricerca di buoni marcatori per un “healthy aging” è ancora aperta.
L’età biologica rivela molto sulla salute e sul tasso di invecchiamento dell’individuo, in quanto è determinata da vari fattori, come lo stile di vita, la genetica, l’esercizio fisico, la qualità del sonno, la presenza o meno di esotossine che possono agire sul corpo: ormai da tempo si stanno cercando di identificare una serie di parametri che possono “misurati” per poter definire “scientificamente” l’età biologica, i cosiddetti biomarkers (biomarcatori) che dovrebbero servire per poter valutare in che modo il corpo “invecchia” (ricercando aree su cui intervenire e i risultati che tali azioni possono sortire). Gli screening hanno la funzione di comprendere quanto sia possibile il miglioramento della qualità di vita grazie ad un’azione anti-aging ma soprattutto introducono il concetto fondamentale di riserva funzionale d’organo, ovvero quali sono i margini supplementari di abilità funzionali (che può essere considerata la capienza residuale oltre gli apparenti limiti funzionali).
Attualmente, in ambito medico, ci tende a valutare alcuni biomarkers considerati rilevanti:
→ funzionalità del fegato e dei reni;
→ funzionalità dei polmoni;
→ funzionalità del sistema metabolico;
→ funzionalità del sistema immunitario;
→ funzionalità del sistema cardiorespiratorio.
In genere la salute dell’apparato dentale, la capacità fisica, l’abilità psicologica ed il coordinamento spaziale sono fattori rilevanti, per una valutazione globale della persona; un esame considerato importante per la valutazione dell’organismo è l’esame del fundus oculi (esame del fondo oculare), per la valutazione dello stato dei capillari del fondo oculare. Ci sono inoltre altri biomarkers di base, in genere tenuti sotto controllo:
→ screening ormonale;
→ stress ossidativo;
→ funzionalità muscolo-scheletrica;
→ screening dermo-estetico.
L’età biologica è influenzata anche dai fattori genetici (DNA) che possono subire modifiche nella loro espressione nel corso della vita: la misurazione della lunghezza dei telomeri (ovvero della regione terminale dei cromosomi) e dei biomarcatori della metilazione del DNA, possono essere considerati come parametri misurabili fondamentali per determinare l’età biologica. La longevità è il risultato dell’interazione tra fattori genetici e fattori “ambientali”: l’esistenza di un essere umano è programmata nel patrimonio genetico (genoma), ma può essere modulata dall’epigenoma, cioè dagli input ambientali o dall’equilibrio biochimico, somatico ed emozionale dell’individuo.
telomeri
Sono porzioni dei cromosomi localizzati alla fine dei cromosomi, (composti di DNA altamente ripetuto che protegge l’estremità del cromosoma stesso dal deterioramento o dalla fusione con cromosomi confinanti) che hanno il compito di mantenere l’integrità del DNA e degli stessi cromosomi nel corso dei cicli di divisione cellulare (mitosi); i telomeri agiscono come veri e propri orologi biologici, ricordando alla cellula quante volte si divise e quanto tempo le resta da vivere: quando la cellula va in mitosi, i telomeri si accorciano progressivamente; quando i telomeri diventano troppo corti, le cellule non riescono più dividersi, generando l’invecchiamento.
Le persone con telomeri più corti avevano maggiori probabilità di avere malattie croniche, malattie neurodegenerative o morte prematura: in altre parole, se si possiedono telomeri più corti rispetto a qualche coetaneo, significa che si è biologicamente più vecchio di loro; alcuni studi suggeriscono che il mantenimento (o l’adozione) di uno stile di vita sano può effettivamente invertire il processo di invecchiamento, allungando i telomeri.
alterazione della metilazione del DNA
Per quanto si ritenga, solitamente, che il DNA sia qualcosa di fisso e immutabile, nella realtà, ciò non è esatto in quanto alcuni geni possono essere “accesi” o “spenti”, a secondo delle esigenze o dei momenti: quando un gene è attivo, viene “espresso””; il processo che attiva o disattiva i geni è chiamato metilazione.
La metilazione consiste nel trasferimento di un gruppo metilico (-CH3) da una molecola all’altra, ed è essenziale per la formazione, duplicazione e riparazione del DNA, così come per l’espressione genica, per la “lettura e attivazione” dei vari geni: quando i processi di metilazione perdono la loro efficienza, l’organismo riduce la sua capacità riparativa e detossificante; allo stesso tempo, quando si crea uno squilibrio tra donatori di gruppi metilici e sostanze pro-metilanti, si possono attivare geni nocivi o inattivare quelli più favorevoli, fino a favorire addirittura l’espressione di oncogeni.